TURCHIA ELEZIONI / 3: Sogni imperiali o ritorno al passato? La politica estera di Ankara al bivio

Sarà anche vero che gli elettori «non vanno a votare pensando alla politica estera», come si legge spesso nelle analisi dei risultati. Ma i cittadini turchi, in vista delle imminenti elezioni politiche del 7 giugno, avrebbero, in realtà, ottimi motivi per smentire la teoria. In campagna elettorale i temi più importanti sono stati altri: la brusca frenata dell’economia, il progetto di riforma presidenzialista a cui punta Erdoğan, i timori di una definitiva deriva autocratica del presidente, il futuro della “questione curda”. Ma il fatto che, dopo alcuni successi iniziali, la rivoluzione geopolitica voluta dall’AKP sia finita in un vicolo cieco è ormai evidente a tutti, anche se il partito di governo si rifiuta ostinatamente di ammetterlo. Se le formazioni politiche di opposizione riusciranno – come sperano – a togliere la maggioranza parlamentare da anni in mano al partito di Erdoğan proveranno a cambiare anche il modo in cui la Turchia ha interpretato il suo ruolo nel mondo in questi anni. Ma non sarà facile: le politiche di più di un decennio di governo dell’AKP hanno lasciato tracce profonde, difficili da eliminare. E tra gli avversari del presidente turco ci sono vistose contraddizioni, forse troppe per ottenere il risultato in cui sperano.

Fino a pochi anni fa, la politica internazionale dell’AKP sembrava un capolavoro di strategia: il maggiore attivismo in politica estera, e soprattutto nelle questioni mediorientali, aveva sicuramente accresciuto l’influenza turca nella regione. Poi sono arrivate le primavere arabe, ed Erdoğan ha intravisto la possibilità per la Turchia di ottenere il ruolo di “paese guida” nello spazio ex ottomano. All’inizio la sua scelta di sostenere il presidente egiziano Morsi – esponente della Fratellanza Musulmana – e i ribelli siriani anti-Assad è stata vista con favore anche in Occidente, dove l’AKP iniziava a essere considerato un partner su cui fare affidamento per promuovere un nuovo ordine regionale più democratico.

Con la deposizione di Morsi, il progetto di Erdoğan – trasformare la Turchia in un punto di riferimento per tutto lo spazio islamico – è entrato in crisi. Ma è in Siria che la strategia dell’AKP si è impantanata in una serie di errori gravi: temendo la formazione di uno stato curdo tra Turchia, Siria e Iraq,  il presidente turco ha prima negato ogni supporto ai ribelli curdi anti- Assad. Poi, dopo le prime avanzate dell’Isis, la Turchia si è rifiutata di fornire aiuto alla città curda di Kobane, assediata dalle milizie del califfato. Le immagini dei soldati turchi immobili di fronte al rischio di un eccidio di civili a pochi kilometri da loro hanno fatto il giro del mondo, provocando reazioni sdegnate in Occidente e in Medio Oriente. L’assenza di un vero sforzo per fermare il transito di jihadisti diretti verso la Siria, e l’ostinato rifiuto di concedere agli Usa l’uso della base aerea di Incirlik per i bombardamenti anti-Isis hanno completato il disastro: la Turchia dopo quattro anni di conflitto in Siria è una nazione la cui credibilità in campo internazionale è compromessa, e che per giunta deve farsi carico di pesantissimi costi del conflitto: quasi due milioni di profughi in fuga dalla guerra da ospitare e assistere, senza contare il dilagare dell’Isis lungo il confine con l’Iraq, che inizia a essere preoccupante.

Di questo fallimento, nel manifesto elettorale dell’AKP quasi non c’è traccia. Il vecchio slogan “zero problemi con i nemici” sembra ormai un po’ comico, se si considera che la Turchia non ha più un ambasciatore in Egitto, Siria, Israele e Libia. Nei comizi di Davutoglu e nei discorsi di Erdoğan si fa ancora riferimento a una Turchia “leader nella regione e del mondo islamico”. Una retorica filo-sunnita quasi settaria è stata spesso adottata a uso interno, anche se poi viene moderata all’esterno per l’esigenza di non scontrarsi troppo direttamente con l’Iran. Le notevoli difficoltà nelle relazioni internazionali sono state spesso attribuite a complotti ora di Israele, ora dell’Unione Europea o degli Stati Uniti, magari con l’aiuto di “traditori interni”.

Il CHP – il principale partito di opposizione, di orientamento kemalista e socialdemocratico – non fa sconti a Erdoğan sulla politica estera, e nel suo programma politico denuncia “la posizione di isolamento internazionale” della Turchia. La soluzione proposta è un ritorno alla classica impostazione della strategia internazionale turca: riavvicinarsi alla Ue e agli Usa, far ripartire le relazioni con Siria, Iraq ed Egitto, e portare la Turchia fuori da una contrapposizione tra sunniti e sciiti, con lo scopo dichiarato di arrivare a “buone relazioni e cooperazione con l’Iran”. Questa visione, però, si scontra con alcuni limiti: definire la lunga era della “dottrina Davutoglu” una parentesi che sta per chiudersi, come fa il CHP, non tiene conto dei profondi mutamenti causati dagli anni di egemonia dell’AKP. Che questo sia un bene o un male, il posto occupato dalla Turchia del mondo in questi anni è cambiato, non solo nelle strategie, ma anche nell’orientamento comune dei cittadini. E mutamenti così profondi non si cancellano nello spazio di un’elezione. Poi, in certi passaggi, il programma internazionale del CHP è vago: promettere –ad esempio – un’equidistanza di fatto tra Assad e i ribelli non aiuterà certo la Turchia a uscire dal pantano siriano.

I nazionalisti di destra dell’MHP, invece, condividono con il partito di  Erdoğan una forte retorica sulla “leadership turca” in Medio Oriente e nel mondo. Il loro programma politico, però, è pieno di contraddizioni: come l’AKP i nazionalisti hanno una visione quasi imperiale del ruolo della Turchia negli affari internazionali, ma promettono di non interferire in nessun caso negli affari interni dei paesi vicini. Nel manifesto dell’MHP, poi, non si chiarisce come la Turchia dovrà affrontare la “questione curda” al proprio interno e lungo i confini.

E’ invece proprio la questione curda – prevedibilmente – il cuore del programma di politica estera dell’HDP, il partito progressista e filo-curdo che potrebbe, entrando per la prima volta in parlamento, far mancare i numeri necessari all’AKP per formare un governo monocolore. Nel manifesto elettorale del partito di Selahattin Demirtaş c’è un’evidente enfasi sull’esigenza per i popoli del Medio Oriente di “decidere liberamente il proprio destino”. Il messaggio è chiaro: se i curdi vorranno fondare un proprio stato tra Turchia, Siria e Iraq dovranno essere lasciati liberi di farlo.

Se il partito di Erdoğan avrà i numeri per formare una maggioranza autonoma – anche senza ottenere la soglia minima per indire un referendum sul presidenzialismo – continuerà nel tentativo di ricalibrare la sua politica estera per rimediare agli errori degli anni scorsi: proseguirà il riavvicinamento all’Arabia Saudita, così come il difficile tentativo di trovare uno spazio autonomo nello scontro regionale tra i sauditi e l’Iran. Andrà avanti anche lo sforzo per ricucire i rapporti con gli Stati Uniti: Erdoğan e Davutoglu hanno già mandato segnali verso Washington, raggiungendo un’intesa importante per l’addestramento di gruppi di ribelli siriani, e concedendo la base aerea di Incirlik almeno per i droni armati. Se invece all’AKP mancheranno i numeri per governare, il futuro della Turchia in politica interna ed estera rischia di diventare un rebus di difficile soluzione. Sulla carta, tutti i tre principali avversari hanno escluso la possibilità di sostenere il partito di Erdogan, così come un’alleanza tra loro per lasciare l’AKP fuori dal potere dopo molti anni sembra difficilmente praticabile.

Una coalizione tra AKP e HDP verrebbe sicuramente accolta con favore in Occidente – è significativo, ad esempio, che l’Economist abbia invitato i turchi a votare proprio per l’HDP, un partito ideologicamente molto vicino alla sinistra radicale europea, che di solito non gode certo delle simpatie del celebre settimanale. Gli osservatori occidentali sperano che un accordo tra i due partiti possa accelerare riforme democratiche – o impedire derive autocratiche – e favorire una soluzione positiva della questione curda. Per questi stessi motivi, un eventuale accordo tra AKP e l’MHP viene visto con molto meno favore: potrebbe essere un mix di nazionalismi difficili da gestire, e i rapporti con i curdi sarebbero destinati a non migliorare. L’eventualità di una coalizione tra AKP e CHP è invece considerata piuttosto improbabile.

Nell’incertezza del risultato, una cosa è sicura: lo stato della democrazia in Turchia è destinato a influenzare pesantamente i rapporti del paese con il resto del mondo, e soprattutto con Ue e Stati Uniti. Eventuali derive apertamente autocratiche di  Erdoğan non potrebbero che peggiorare i rapporti con l’Occidente. E nuove tentazioni nazionaliste sarebbero catastrofiche per uno scenario destabilizzato come quello del Medio Oriente attuale.

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