#Turchia al voto domenica prossima. Sono le elezioni più incerte dell’era di Erdoğan: senza maggioranza assoluta addio presidenzialismo forte e nuova costituzione. Ecco chi frena le ambizioni del Presidente.
Quelle del 7 giugno saranno le elezioni più importanti per Erdoğan. In ballo c’è il coronamento del suo progetto politico: presidenzialismo forte e nuova costituzione. Obiettivo facile da raggiungere se l’AKP avrà la maggioranza assoluta per governare da solo. Circostanza tutt’altro che certa: è probabile che l’ago della bilancia, questa volta, sia il partito curdo HDP. Fine dell’egemonia dell’AKP in parlamento?
Chi frena le ambizioni di Erdoğan
Il Partito Democratico dei Popoli (Halkların Demokratik Partısı, HDP), nasce nel 2013 in parallelo al percorso di strutturazione politica del Rojava siriano e come conseguenza del periodo di distensione promosso dal leader della resistenza curda Ocalan. L’obiettivo del partito è creare una struttura capace di guadagnarsi una rappresentanza politica. Al suo interno possiamo trovare varie anime (fra cui i movimenti che hanno preso parte a Gezi Parkı e le associazioni Lgbt, per fare due esempi) integrate nel comune obiettivo di superare la soglia di sbarramento del 10% ed avere la possibilità di esprimere la propria voce all’interno della Grande Assemblea Nazionale. L’HDP vuole sostanzialmente farsi portavoce delle espressioni politiche, culturali, identitarie, respinte fino ad oggi ai margini del processo decisionale politico turco. Selahattin Demirtaş, co-segretario del partito, che alle scorse elezioni era riuscito ad ottenere una rappresentanza curda in parlamento grazie a candidature indipendenti, ha scommesso per questa tornata elettorale sulla creazione di una lista di candidati dell’HDP. Segnale forte e deciso del nuovo tipo di impatto che si intende dare, e scontro diretto verso Erdoğan: il messaggio è chiaro, se passiamo noi l’AKP troverà un’ opposizione decisa e compatta.
La presenza dell’HDP in parlamento potrebbe rappresentare un problema per l’AKP e il suo progetto di ristrutturazione della Repubblica di lungo respiro, e mettere la parola fine all’egemonia politica di cui questo questo partito ha goduto possiamo dire ininterrottamente per 13 anni, fin dalla sua prima vittoria elettorale nel 2002. Conquistando circa 60 seggi l’HDP costringerebbe Erdoğan non solo a dialogare con le opposizioni per riscrivere la costituzione, ma anche a dover cercare una stampella per il governo. I sondaggi dimostrano come il primo ministro Ahmet Davutoğlu rischi di non avere i numeri per un governo monocolore nel caso in cui l’HDP, dopo aver bussato alle porte, trovi un modo per entrare in parlamento. Non bisogna dimenticarci degli altri partiti che corrono alle elezioni e dei loro rappresentanti politici, ma l’approccio del segretario del CHP Kemal Kılıçdaroğlu e del leader dell’MHP Devlet Bahçeli hanno fino ad ora permesso a Demirtaş di eleggersi a vero e diretto antagonista di Erdoğan.
La faida con l’ex alleato
I problemi di Erdoğan non finiscono qui. Sul nodo del presidenzialismo si è consumata la rottura con il suo più prezioso alleato, Fethullah Gulen, figura di riferimento dell’influente movimento Hizmet e a capo di un impero economico con ramificazioni nell’industria pesante, nel settore bancario e nei media. Proprio contro i giornali vicini a Gulen lo scorso dicembre è stata condotta una maxi operazione di polizia che ha portato all’arresto, fra gli altri, del caporedattore di Zaman, il principale quotidiano del paese. Succedeva un anno esatto dopo lo scoppio della tangentopoli turca, un grande scandalo di corruzioni e tangenti che hanno interessato il cuore dell’AKP e fatto vacillare il governo. Il procuratore che diede il via alle indagini, Zekeriya Öz, è un importante membro di Hizmet. Per Erdoğan il burattinaio era Gulen, accusato di aver infiltrato uomini di fiducia all’interno delle istituzioni per creare uno Stato parallelo.
Di fatto la prima vittoria dell’AKP nel 2002 era frutto di un accordo fra l’attuale presidente e il magnate, che tramite Hizmet influenzava un considerevole pacchetto di voti e ha saputo frenare i malumori dell’esercito, restio a concedere il potere a un partito non secolare. Un patto che regge se nessuno dei due accentra troppo potere nelle sue mani. I primi segni dell’imminente rottura nascono fra il 2007 e il 2010, con l’accelerazione verso il presidenzialismo imposta da Erdoğan: elezione diretta della carica e modifiche alla costituzione per limitare l’autonomia della magistratura. In mezzo lo scandalo Ergenekon e il piano segreto Sledgehammer, intrighi per estromettere l’AKP i cui principali responsabili, di nuovo, erano membri di Hizmet.
L’eco delle proteste fra diritti a rischio e attentati
Il senso di accerchiamento percepito da Erdoğan si è manifestato negli ultimi mesi con una pesantissima legge sulla sicurezza. Il testo, approvato a fine marzo, trasferisce ai governatori (di nomina governativa) alcune prerogative della magistratura, dà più poteri alla polizia e pone la gendarmeria sotto il controllo del ministero dell’Interno. Il provvedimento è stato criticato sia dall’estero (Amnesty, Osce, Consiglio d’Europa) che dalle opposizioni turche perché rappresenta una forte limitazione delle libertà personali e di parola. Erdoğan teme di perdere consensi a causa delle proteste di piazza, che si sono moltiplicate negli ultimi anni. L’eco di Gezi Park potrebbe rinvigorire le opposizioni. Infatti per il partito di Demirtaş è arrivato un successo dal fronte giuridico: ad aprile sono stati assolti i 26 portavoce del movimento Gezi Parki del 2013, sui quali pendevano forti accuse. I ragazzi coinvolti nel processo hanno rischiato l’incarcerazione in quanto “presunti appartenenti ad organizzazioni criminali”; la 33ma Corte di prima istanza di Istanbul ha chiuso il processo decretando l’insussistenza delle accuse, e uno degli accusati (Ali Cerkezoglu, segretario generale dell’Ordine degli Ingegneri di Istanbul) ha rilasciato un’intervista in cui ha ribadito la sua innocenza denunciando il carattere meramente “politico” dell’accusa.
Dopo Gezi le proteste sono continuate con frequenza crescente. La lista è lunga: le manifestazioni contro l’attendismo del governo quando Kobane era assediata dallo Stato Islamico (fattore che può portare molti voti all’HDP), quelle in occasione della morte di Ozgecan Aslan, per l’incidente alle miniere di Soma, durante il primo maggio di quest’anno. Un malcontento, questo, che la legge sulla sicurezza non contribuisce a far diminuire, anche sull’onda dei timori di una brusca frenata per l’economia turca dopo un decennio di forte crescita. E alle proteste si sono sommati gli attentati terroristici. Il DHKP-C è tornato a colpire uccidendo il giudice Mehmet Selim Kiraz nel suo ufficio al tribunale di Istanbul e poi con un assalto alla questura centrale e un’azione in una sede dell’AKP. Succedeva pochi giorni dopo l’approvazione della legge sulla sicurezza. Da allora si sono moltiplicate le violenze contro le sedi dei partiti (tutti, non solo l’AKP) e i candidati durante i loro comizi. Decine di incidenti e attentati in tutto il Paese che non gettano soltanto un’ombra sulla prossima tornata del 7 giugno. La prospettiva più inquietante è che possano continuare anche dopo l’appuntamento elettorale, aprendo una nuova stagione di instabilità.