Due kalashnikov incrociati sulla stella rossa. In ufficio il ritratto del presidente Assad, sul campo di battaglia la bandiera a due stelle dei lealisti. E il poster di Che Guevara, immancabile santino che adesso sventola sulle colline di Latakia. In attesa della prossima offensiva dei ribelli, come da quattro anni a questa parte nella guerra in Siria. I tanti nomi con cui questa strana milizia è conosciuta tratteggiano una storia tortuosa e inaspettata. Shabiha, gli spettri. Liwa al-Iskandarun, il nome arabo di Alessandretta. O Acilciler, i Soccorritori, questa volta in turco. Il suo leader è un personaggio dall’aria pacata, faccia tonda dietro un bel paio di baffi grigi. Anche lui di nomi ne ha diversi. Mihraç Ural è quello registrato all’anagrafe di Antiochia, ma in Siria e per gli aleviti turchi è Ali Kayali. Nom de guerre, “iena”.
Quando non protegge il feudo della famiglia Assad con i suoi 500 compagni, Mihraç Ural vive tranquillamente vicino a Latakia. Partecipa alle manifestazioni, si fa immortalare mentre cucina oppure in divisa, un mazzo di fiori in una mano e l’altra ad accogliere una soldatessa. Come a dire, non è certo un’invenzione dei curdi del Rojava, le donne contano anche per noi. E pure il marxismo-leninismo, come ricorda in modo grottesco il poster del Che. Tutto questo materiale lo riversa sul suo profilo facebook, mentre su Youtube carica inni e canzoni che celebrano la Siria (“patria”), promettono di sconfiggere i terroristi (i ribelli) e ricordano con nostalgia la provincia turca di Hatay.
Dietro questa facciata c’è ben altro. Il gruppo di Ural è uno dei bastioni del regime nella regione, un corpo d’élite che fa da avanguardia alle truppe regolari esattamente come gli Hezbollah lungo il confine col Libano. Ha avuto un ruolo determinante in alcuni episodi della guerra in Siria, nelle due controffensive vicino a Latakia fra 2013 e 2014, a Homs e in innumerevoli operazioni a Idlib, Jisr al-Shughur, nella piana di al-Ghab. Ma era un gruppo paramilitare anche prima della rivoluzione, inquadrato nelle Shabiha, le squadracce del regime destinate a reprimere qualsiasi forma di dissenso. Fedelissimi al regime anche per affinità religiosa. Ural e compagni sono aleviti della provincia di Hatay (ceduta alla Turchia dai francesi nel 1939, che avevano il protettorato sugli odierni Siria e Libano), che storicamente hanno stretti legami anche di parentela con gli alawiti siriani, il clan della famiglia Assad. E l’odio per le altre confessioni gioca un ruolo non secondario nelle azioni di Ural. L’episodio più eclatante è il massacro di Baydas e Banias di maggio 2013, quando le sue milizie hanno trucidato tutti gli abitanti sunniti dei due villaggi, centinaia di persone sospettati di appoggiare i ribelli sulla base della sola religione professata.
Un esito ben lontano dagli obiettivi degli esordi, metà anni ’70, quando Mihraç Ural agiva nella sua Turchia. Le prime azioni le compie insieme a gruppi marxisti-leninisti come il DHKP-C (Devrimci Halk Kurtuluş Partisi-Cephesi, Fronte-Partito Rivoluzionario di Liberazione Popolare), tornato alla ribalta con il sequestro e l’uccisione del giudice Mehmet Selim Kiraz a fine marzo. Allora voleva contrapporsi alla Nato e all’ingombrante influenza dell’esercito turco sulla repubblica kemalista. Nel 1975 entra a far parte di una branca del gruppo principale che prende il nome di Acilciler e punta a risvegliare i sentimenti anti-turchi ad Hatay. Viene catturato dopo il colpo di Stato 5 anni dopo, ma riesce a evadere dalla prigione di Adana e ripara in Siria.
In breve tempo fa “carriera”. Entra in contatto con un fratello minore del presidente Hafez, Jamil Assad, che da poco ha creato la Shabiha. Jamil cerca qualcuno che abbia collegamenti validi con la Turchia e Ural fa al caso suo, esattamente come il leader del PKK curdo Abdullah Öcalan, che negli stessi anni trova rifugio in Siria. Per Ural viene combinato il matrimonio con Malak Fadal, parente di Jamil, e così entra definitivamente nella cerchia della famiglia Assad. Riceve la cittadinanza e parte per i campi di addestramento nella valle della Bekaa, in Libano, per poi stabilirsi a Latakia. Alcuni ritengono che abbia lavorato fianco a fianco con Öcalan, riuscendo a recarsi più volte in Francia malgrado sulla sua testa pendesse un mandato d’arresto dell’Interpol.
Di certo è utile al regime se ha superato indenne le purghe contro esponenti di primo piano dell’inner circle di Assad padre e figlio. I suoi legami con la Turchia, soprattutto la capacità di trovare appoggi nella provincia di Hatay, lo hanno reso il principale sospettato per gli attentati di Reyhanli dell’11 maggio 2013, i più sanguinosi attacchi terroristici della storia recente della Turchia in cui persero la vita 51 persone e 140 furono ferite. Ural nega, è persino intervenuto via telefono durante una trasmissione della tv turca per ribadire la sua estraneità. In effetti altre piste portano verso il Fronte al-Nusra, la filiale di al-Qaeda in Siria. Ma gli è più difficile negare il massacro di Baydas e Banias: in un video dove discute come bloccare l’avanzata dei ribelli lo si sente affermare che in quei due villaggi sunniti bisogna “fare pulizia al più presto”.