di Giorgio Fruscione
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE A SARAJEVO – Giovedì 3 Marzo, ore 21, aeroporto di Vienna. L’ex generale dell’esercito bosniaco, Jovan Divjak, viene arrestato dagli agenti dell’Interpol in virtù di un mandato di cattura internazionale emesso dalla Procura di Belgrado. Il motivo dell’arresto sarebbe il coinvolgimento di Divjak per i fatti della Dobrovoljačka ulica del 3 maggio ’92, quando un convoglio del Jna (esercito popolare jugoslavo) fu attaccato dal nascente esercito bosniaco mentre lasciava Sarajevo.
Quel che accadde 19 anni fa sulla Dobrovoljačka ulica non è stato del tutto chiarito. L’unica certezza è che la situazione in tutta la capitale era governata dal caos: il giorno prima l’Jna aveva tentato di occupare il centro della capitale. La controffensiva bosniaca si era concentrata nell’assedio alla caserma “Maresciallo Tito”, dove il generale Kukanjac del JNA fu fatto prigioniero e, poco dopo, all’aeroporto di Butmir le truppe serbe arrestarono Alija Izetbegović di ritorno dalla Conferenza di pace di Lisbona. Il 3 maggio iniziò con intense trattative tra i due eserciti e l’Onu che si conclusero con il seguente accordo: un convoglio di veicoli forniti dall’Unprofor avrebbe scortato Izetbegović dal quartier generale serbo di Lukavica (dove il presidente aveva trascorso la notte da prigioniero) fino alla “Maresciallo Tito”, dove sarebbe stato prelevato il generale Kukanjac insieme a circa trecento soldati e molti armamenti. Insieme sarebbero quindi ripartiti per portare Izetbegović al palazzo presidenziale e, successivamente, Kukanjac alla Lukavica.
Accadde che, mentre il convoglio attraversava la Dobrovoljačka, il convoglio fu spezzato in due da un auto ed iniziò un’intensa sparatoria. Alcuni testimoni dicono che a sparare furono semplici sarajevesi ai lati della strada; altri che furono soldati bosniaci; altri invece che l’ordine di sparare arrivò dall’alto.
Anche il numero delle vittime è incerto: quarantadue secondo il Procuratore militare (dell’epoca Milošević) che emise il capo d’accusa; otto secondo Divjak; soltanto sei secondo Kukanjac.
Lo stesso capo d’accusa è stato indirizzato ad una lista di 19 persone, indicate dalla procura serba come responsabili per quei fatti. Tra essi, spiccano i nomi del defunto presidente bosniaco Alija Izetbegović, del fondatore del HDZ BiH, Stjepan Kljuić, e di Ejup Ganić, membro della presidenza collegiale bosniaca durante la guerra. Quest’ultimo era stato arrestato all’aeroporto londinese di Heathrow il primo marzo 2010, ma venne poco dopo rilasciato dalle autorità inglesi che giudicarono il mandato di cattura come “politicamente motivato”, e non supportato da prove sufficienti. Così come riferisce il portavoce della Procura di Stato bosniaca, Boris Grubešić, il fatto fu compiuto in territorio bosniaco e da cittadini bosniaci, e pertanto ci si trova di fronte ad un conflitto di competenza giudiziaria, in quanto spetta a Sarajevo il giudizio per i fatti della Dobrovoljačka ulica. La letteratura giuridica del Tribunale Internazionale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia (ICTY), definisce l’episodio come un “normale scontro a fuoco tra due eserciti in conflitto”.
Al momento dell’arresto Divjak stava recandosi, come sua consuetudine, ad una conferenza in Italia, a dimostrazione di come il mandato di cattura non lo intimorisse affatto. Una volta terminata la guerra, la vita di Jovan Divjak è stata dedicata alle opere di bene: è infatti direttore dell’associazione “Obrazovanje gradi BiH” (l’educazione costruisce la Bosnia Erzegovina), che lavora per le migliaia di orfani di guerra, fornendo loro le borse di studio.
La vicenda di Divjak stupisce ancor di più se si pensa che, nella Serbia che ha voluto il suo arresto, ancora latitano criminali di guerra del calibro di Mladic, mentre Divjak è responsabile – se lo è – di un comune atto di guerra e non certo di un genocidio. Due pesi e due misure? Da giovedì notte in Bosnia i mezzi di comunicazione non parlano d’altro e la reazione della popolazione non si è fatta attendere: la notizia si è diffusa a macchia d’olio tra i cittadini della capitale e poco dopo molti di loro si sono spontaneamente riuniti assediando pacificamente l’ambasciata austriaca. Nello stesso luogo, sabato 5 marzo, è stata organizzata un’ulteriore manifestazione di protesta contro l’arresto del generale, a dimostrazione della grande solidarietà che la popolazione nutre per l’uomo che, nonostante la propria “appartenenza etnica”, giurò fedeltà ai principi di una Bosnia unitaria e multietnica.
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