La riabilitazione internazionale dell’Iran non passa soltanto dai negoziati sul nucleare. Altrettanto importante è il ruolo che Teheran ha saputo ritagliarsi durante gli ultimi mesi nella lotta allo Stato Islamico in Iraq. Mentre a Losanna il ministro degli Esteri Javad Zarif trovava una storica intesa con le potenze del P5+1 [leggi il dossier sul nucleare iraniano], il fotogenico generale iraniano Qassem Soleimani ha guidato la vittoriosa offensiva su Tikrit. Ma soprattutto ha costretto gli Stati Uniti, che spianavano la strada all’offensiva con i bombardamenti, a una cooperazione militare “di fatto” davvero inimmaginabile fino a qualche tempo fa. Dopo la presa di Tikrit, da alcune settimane le operazioni si stanno concentrando nella vasta provincia di Anbar, nel sud-ovest dell’Iraq, caduta sotto il controllo dello Stato Islamico nel gennaio del 2014. Qui la situazione è notevolmente più complicata. La presenza di truppe iraniane sciite rischia di far esplodere le tensioni settarie che agitano da anni la regione, a larga maggioranza sunnita. D’altronde nell’Iraq del dopo Saddam le tribù dell’Anbar sono state più volte decisive nel cambiare gli equilibri del Paese.
La mezzaluna sciita vista dall’Iraq
L’Iraq è un tassello importante per la politica estera iraniana. Più influenza su Baghdad significa rafforzare quella “mezzaluna sciita” che collega Teheran a Damasco e a Hezbollah in Libano. E non è certo un mistero che l’impronta marcatamente sciita voluta dall’ex premier iracheno Nuri al-Maliki con l’appoggio degli americani si sia rivelata un assist prezioso per la Repubblica Islamica. Tuttavia le sue politiche settarie hanno esasperato una situazione interna già in fibrillazione. A guidare il malcontento sono state proprio le tribù sunnite dell’Anbar. A Ramadi e Falluja, i principali centri della regione, le manifestazioni di protesta iniziate a fine 2012 sono durate per oltre un anno culminando in scontri a fuoco con l’esercito regolare, contribuendo a minare la credibilità di al-Maliki.
Non si è trattato solo di scontri di piazza. Le tribù dell’Anbar infatti sono il nerbo dei Consigli del Risveglio, corpi paramilitari costituiti nel 2005 su pressioni americane per arginare l’ondata jihadista che flagellava l’Iraq. Armati e pagati dagli Usa, i 50.000 miliziani sunniti che componevano queste milizie erano anche una sorta di contrappeso allo strapotere sciita nelle nuove istituzioni irachene. Per questo motivo al-Maliki le ha guardate con crescente diffidenza, rifiutando di integrarle nelle forze armate regolari per timore di un possibile colpo di Stato.
È evidente che per le tribù dell’Anbar, decise a salvaguardare i propri interessi e a guadagnare maggior peso politico, essere “liberate” dal giogo dello Stato Islamico grazie all’intervento delle forze iraniane è l’opzione peggiore. Le truppe sciite agli ordini di Soleimani, infatti, sono quelle che combattono in prima linea e sarebbero le prime a occupare città e villaggi. Sulla loro avanzata quindi pesano le paure di rappresaglie di natura settaria, le stesse che aveva già suscitato la recente offensiva su Tikrit (anch’essa a maggioranza sunnita). Il rischio con cui deve fare i conti l’Iran, quindi, è quello di vincere sulle macerie di una regione da cui potrebbe divampare una nuova ondata insurrezionale che può spaccare l’Iraq lungo l’asse settario e compromettere la percezione dell’influenza iraniana sull’intero Paese.
Un assist allo Stato Islamico?
Teheran deve poi valutare con attenzione le ripercussioni che il suo intervento potrebbe avere sui rapporti fra le tribù dell’Anbar e lo Stato Islamico. Se è vero che l’esperienza dei Consigli del Risveglio ha impegnato gran parte della popolazione locale nella lotta al jihadismo, bisogna ricordare che la nascita del Califfato è stata possibile proprio grazie all’appoggio fornito da alcune di queste tribù. La convergenza di interessi è nata all’inizio del 2014, durante la fase terminale delle proteste contro il governo. Il pugno duro di al-Maliki, che non aveva esitato a schierare reparti dell’esercito per sedare la rivolta, ha spinto molti ad accettare un’alleanza con i miliziani di al-Baghdadi. Così, nel volgere di pochi giorni, prima Falluja e poi gran parte della regione è caduta in mano agli insorti. Lo Stato Islamico ha gettato radici e ha trovato una base arretrata per le offensive che ha lanciato nei mesi seguenti in Siria.
L’aspetto più rilevante è che in quel frangente migliaia di miliziani prima inquadrati nei Consigli del Risveglio hanno defezionato e sono andati a rinfoltire i ranghi del Califfato. Si tratta di scelte prese non a livello individuale ma tribale, di conseguenza ogni nuovo alleato portava in dote il controllo capillare della sua fetta di territorio. Proprio per questo motivo negli ultimi mesi la lotta allo Stato Islamico si è concentrata sul tentativo di incrinare i suoi rapporti di alleanza con alcune delle tribù locali. Tentativo riuscito solo in parte visto che molti gruppi hanno optato per una sorta di neutralità, ma abbastanza solido per lanciare l’offensiva in corso in queste settimane. In questo quadro, un eccessivo protagonismo dell’Iran potrebbe rompere il fragilissimo equilibrio e spingere le tribù a schierarsi apertamente con lo Stato Islamico, che apparirebbe come il male minore. D’altronde l’inquadramento dei combattenti sunniti dell’Anbar nelle forze armate regolari irachene stenta a compiersi. Solo nelle ultime settimane è stato creato il Secondo Battaglione dei Figli di Amiriyat al-Falluja, che però comprende poco più di un migliaio di effettivi.
Le mille incognite di un’offensiva nell’Anbar
L’Iran si trova quindi a dover scegliere fra due alternative altrettanto incerte. Può cercare la vittoria sul campo, ma rischia di compromettere seriamente i rapporti con parte del Paese e di impantanare la sua politica estera nella frattura sciiti-sunniti. Nel peggiore dei casi, se le tribù dell’Anbar si rifugiassero fra le braccia del Califfato, verrebbe additato come principale ostacolo alla lotta allo Stato Islamico: un esito diametralmente opposto a quello sperato. Oppure accetta di farsi da parte, con il pericolo di perdere quell’influenza sui vertici iracheni che è riuscito a costruirsi negli ultimi anni. Questa scelta potrebbe rivelarsi necessaria se gli Stati Uniti aumentassero le pressioni in tal senso. Washington, che svolge un ruolo fondamentale nell’offensiva grazie ai bombardamenti aerei, vuole evitare di compromettersi con una cooperazione militare con l’Iran. Perciò ha congelato la situazione bloccando i rifornimenti di armi all’esercito regolare iracheno, nell’attesa di capire quale sarà la mossa iraniana. Una scelta resa ancora più complessa dalla volontà di Teheran di strappare agli Usa un buon accordo sul nucleare, previsto entro la fine di giugno.