Che in Ungheria la politica estera stesse cambiando volto lo si era già capito da tempo. La scelta di affidarne la guida al giovane Péter Szijjártó, subentrato nel settembre 2014 al neo-commissario europeo Tibor Navracsics, una semplice conferma. Il nuovo capo della diplomazia, in passato già portavoce personale di Viktor Orbán, ha espresso sin dalla sua prima audizione in parlamento la necessità di un cambio di rotta strategico. Da qui la convocazione straordinaria – lo scorso nove marzo – degli ambasciatori ungheresi che di norma si incontrano annualmente nel periodo estivo. Szijjártó ha confermato che lo scenario internazionale attuale è tale da richiedere un confronto meno sporadico annunciando due appuntamenti, in primavera e in autunno. E’ stato Orbán Viktor in persona ad accogliere il suo corpo diplomatico esponendo con chiarezza strumenti, metodo e obiettivi della nuova dottrina di politica estera ungherese.
Gli strumenti
Il premier annuncia una centralizzazione delle funzioni amministrative nelle sole mani dell’ambasciatore, l’unico ad avere riconosciuti poteri di indirizzo all’estero senza interferenze di altri enti come rappresentanze commerciali o istituti di cultura. Ridotto anche il peso delle istanze di altri dicasteri nelle sedi diplomatiche. Tutto in linea con il riassetto generale delle strutture che oltre a prevedere in tre fasi il cambio di assegnazione di 84 capi-missione su 113, accresce il numero degli attachè economici da 81 a 136.
Il contesto
L’Ungheria è chiamata ad adattarsi ad un contesto internazionale in continua evoluzione le cui mutazioni sono persino più profonde e sconvolgenti di quelle avvenute nel XX secolo. Orbán ricorda come in passato gli stravolgimenti fossero traumatici, segnati da eventi ben definiti come guerre mondiali, trattati di pace, modifiche territoriali. Oggi la natura dei cambiamenti è economica, in buona parte frutto della globalizzazione e dell’apertura dell’Occidente all’Asia. Questo rende tutto rapido e impercettibile ma non meno determinante, al punto che nei prossimi anni gli scenari potrebbero essere completamente diversi e tali da portare ad un nuovo ordine mondiale.
La collocazione
Due sono in particolare le direttrici di azione della politica estera magiara: l’apertura ad est e a sud. Ma prima ancora si sottolinea il vero punto di partenza: l’integrazione del campo occidentale. A chi con ironia lo sollecita ad aprirsi ad Occidente, Orbán risponde con pari ironia che l’Ungheria è essa stessa l’Occidente. Tale binomio ora non può essere discusso da alcuno perchè è stato il popolo sovrano a scegliere. Il primo ministro menziona infatti i referendum con cui, subito dopo la caduta del muro, si è definito il posizionamento dell’Ungheria nella NATO e nell’Unione Europea. ”E’ stato un atto del popolo a decidere – ribadisce – e nessun soggetto di diritto pubblico può modificare questa scelta”. L’appartenenza e l’integrazione del campo occidentale si costruiscono giorno per giorno con atti concreti e non con dichiarazioni. Ne consegue l’importanza di garantire una assidua partecipazione del paese ad operazioni militari congiunte, a coalizioni internazionali ed a missioni come quella in atto contro l’ISIS.
Gli ambasciatori vengono poi invitati ad immaginare l’Europa orientale come collocazione naturale dell’Ungheria, un’area che per il solo fatto di aver condiviso esperienze storicamente molto tristi, accomuna i destini di diversi paesi. Pertanto gli interessi dell’est Europa devono essere considerati alla stessa stregua degli interessi nazionali e tutte le iniziative volte alla cooperazione, come il gruppo di Visegrád [invero ultimamente spaccato sulla crisi ucraina, ndr], abbisognano di sostegno continuo.
Orbán si sofferma a motivare l’esistenza di un altro sistema da cui l’Ungheria non può prescindere e ”la cui influenza determina le sorti del paese da mille anni”. Si tratta di un vero e proprio triangolo geopolitico i cui vertici sono Germania, Russia e Turchia. Non sono un caso le visite ufficiali a Budapest nei primi due mesi dell’anno (nell’ordine) del cancelliere Merkel, del presidente Putin e del capo del governo turco Davutoğlu. Il legame con questi attori internazionali è per natura preesistente all’asse transatlantico e, in prospettiva, anche più solido e diretto. Una sottolineatura è tuttavia doverosa sul piano dei rapporti di forza e qui sono le relazioni con la Turchia a destare maggiore preoccupazione. Il quadro è complicato dal fatto che rispetto ai mercati terzi Ankara non è complementare ma in competizione con l’Ungheria.
Il metodo
Per trasmettere quale debba essere il nuovo approccio della diplomazia magiara c’è un riferimento al viaggio di Renzi a Mosca e al patto siglato tra Italia e Russia per la nascita di un fondo di investimenti da un miliardo di dollari. Nel suo ragionamento Viktor Orbán traccia un parallelismo e spiega che mentre in patria si diffonde un clima di agitazione e di scrupolo per gli effetti della visita del leader del Cremlino a Budapest, gli altri fanno tranquillamente affari. L’esempio italiano giustifica, tra gli altri, una politica estera radicalmente diversa dalla tradizionale. Una visione meno aristocratica ed il più possibile vicina alla realtà. Non servono “intelligenze accademiche ma astuzia economica” in grado di leggere tutte le possibilità di business che possono sorgere.
C’è poi un’altra regola non scritta della diplomazia ungherese di cui si raccomanda la sostituzione. Se in passato gli ambasciatori erano chiamati all’astenersi dal rilasciare dichiarazioni potenzialmente scomode per i paesi “ospitanti”, oggi si cambia. Inoltre è sbagliato oltre che obsoleto sostenere che gli interessi dell’Ungheria debbano necessariamente coincidere con quelli delle potenze medie e grandi alla cui sfera di influenza si appartiene. “Le divergenze di interessi sono un fatto naturale – prosegue il premier nel suo messaggio – e ciò avviene nella misura in cui la politica estera magiara è su base nazionale”.
La giusta ricetta per ripensare le relazioni internazionali evitando conflittualità e inimicizie sta allora nel rendere appetibile l’Ungheria, nel creare opportunità e convenienze. In tal senso alcuni modelli sono già delle realtà di successo. Così per la Germania e per i suoi venti miliardi di investimenti la stabilità ungherese è un interesse primario. L’Ungheria ha analogamente legato le sorti della sua industria sviluppata agli stati tedeschi del sud. Stesso discorso per gli Stati Uniti protagonisti di importanti finanziamenti nel settore informatico e dell’high-tech. La maggioranza delle aziende con cui il governo ha stretto i cosiddetti “accordi di cooperazione strategica” è americana per un paradigma non finalizzato alla semplice delocalizzazione ma a progetti di sviluppo del tessuto sociale e della qualità lavorativa di ampie aree del territorio. Con la vicina Russia, nei cui confronti si è acquirenti energetici, l’importante è continuare ad essere precisi nei pagamenti senza manifestare atteggiamenti ostili pur essendo irremovibili nel promuovere il rispetto del diritto internazionale. Di primo piano è la partnership cinese. La Cina negli ultimi anni ha puntato all’Europa orientale come zona privilegiata di penetrazione del vecchio continente e l’Ungheria è parte integrante di questa dinamica. Non sembra infatti del tutto casuale la scelta di dislocare a Budapest la sede regionale di Bank of China ed il Central and Eastern Europe Regional Tourism Centre.
Gli obiettivi
Detto dei pilastri intellettuali e dei principi alla base della nuova politica estera, Orbán passa agli obiettivi reali e concreti. “Una nazione – esordisce – priva di una adeguata forza militare, di armi di distruzione di massa, energeticamente non autonoma, con un mercato che non supera i dieci milioni di unità, non si può realisticamente considerare grande. Ed è obiettivamente difficile portare avanti una politica estera su base nazionale con simili premesse”. Ma si può partire dall’economia.
L’esempio polacco fa scuola. Si ricorda come la Polonia abbia mantenuto tassi di crescita stabili e continui anche in condizioni di stagnazione e recessione internazionale. L’economia ungherese è sulla buona strada ed oltre a mantenere basse disoccupazione e debito pubblico, dimostra il verificarsi di una particolare e inusuale compresenza: crescita e bilancia commerciale positiva. Questo perché, argomenta il capo dell’esecutivo, diminuendo il peso di prestiti e crediti esteri si riduce la dipendenza finanziaria a fronte di un aumento del capitale straniero presente sotto la specie degli investimenti produttivi.
L’obiettivo è migliorare l’export attraverso una diversificazione dei mercati. Orbán vuole che un terzo delle merci in uscita prenda direzioni diverse dall’Unione europea ed in parte è così già per il 5% dei volumi complessivi grazie alla cosiddetta “apertura ad est”. “La porta a oriente è aperta – si afferma con una punta di orgoglio – bisogna solo attraversarla” anche se il lavoro deve essere ultimato. Mancano infatti all’appello, ma già in agenda, visite e missioni commerciali in Indonesia, Singapore, Malesia, Vietnam e Mongolia.
Se nel medio termine l’attenzione sarà rivolta ancora su Asia e Cina, viene delineato un nuovo fronte verso cui muovere nei prossimi due anni, una nuova iniziativa: “l’apertura a sud”. La crescita asiatica non è illimitata per cui nuovi partner vanno ricercati in due continenti apparentemente periferici ma ricchi di possibilità: Africa e America latina. Nel primo caso sono previsti progressi estesi nella stabilizzazione politica da accogliere come nuove opportunità commerciali. In America latina c’è un maggiore consolidamento delle condizioni, si tratta solo di invertire una tendenza che tradizionalmente ha trascurato quest’area.
L’Ucraina
Il primo ministro dedica la conclusione della sua esposizione alla situazione in Ucraina parlandone come uno dei segni tangibili del “nuovo ordine mondiale” che si va definendo. “Abbiamo una guerra ai nostri confini – rimarca Orbán – un fatto assolutamente impensabile fino a qualche tempo fa”. Per quanto l’area delle operazioni belliche sia lontana dal territorio magiaro, viene minacciata comunque la stabilità ucraina che è uno degli interessi primari dell’Ungheria. Nonostante adesso le tensioni sembrino placate, l’assenza di un trattato di pace tra le parti in conflitto rende inquieta Budapest. E’ a rischio uno dei capisaldi geostrategici ungheresi, eredità del ”dopo muro” e del crollo del regime sovietico, un principio che viene sintetizzato in poche parole: ”Non vogliamo un confine comune con la Russia. Tra noi e loro deve e dovrà esserci sempre qualcosa, un territorio, meglio se grande, uno stato sovrano”. Dall’integrità e dal mantenimento territoriale dell’Ucraina non si può prescindere.
Il congedo di Orbán dai suoi ambasciatori è un invito. L’Ungheria è un piccolo paese, non determinante, non influente. Ad essa non viene chiesto nè di cambiare il corso degli eventi nè di avere voce in capitolo nelle grandi questioni. ”Per noi il centro del mondo è la cartina geografica dell’Ungheria. Non voglio dei visionari. Non voglio che il diplomatico ungherese sia cittadino del mondo, ma che sia riconosciuto nel mondo come ungherese”.
Articolo ben scritto, molto chiaro. Complimenti! Mi fa piacere essere informata sulla realtà ungherese da persone professionali che usano l’oggettività nel riassumere in maniera così chiara gli eventi attuali essendo residente in Italia.
Grazie per il lavoro e l’impegno svolto.