Nelle ultime settimane, molti analisti avevano criticato Barack Obama per la sua ostinazione nel voler chiudere un accordo sul nucleare iraniano entro la deadline del 31 marzo. Con una fretta simile, secondo i più scettici sulle negoziazioni in corso, la posizione Usa si sarebbe indebolita irrimediabilmente, e Obama avrebbe dovuto fare troppe concessioni per raggiungere un’intesa.
Dopo che la Casa Bianca ha diffuso i punti principali su cui si è chiuso l’accordo di Losanna, sono stati in molti a riconoscere all’Amministrazione Usa un sostanziale successo. I leader iraniani potranno sicuramente rivendicare a “uso interno” alcuni punti simbolici – come il non dover chiudere nessun impianto atomico, e l’essere più vicini che mai all’eliminazione delle sanzioni – ma al di là delle narrazioni, ciò che Obama è riuscito ad ottenere va oltre molte aspettative della vigilia. Come hanno scritto diversi commentatori americani, considerando gli aspetti tecnici dell’accordo, tra cui la forte riduzione delle centrifughe, e soprattutto il fatto che diversi controlli a cui saranno sottoposti gli iraniani dureranno più del previsto, ciò che l’Amministrazione Usa è riuscita a ottenere non era affatto scontato.
In molti si sono interrogati sulle motivazioni che hanno spinto Obama a cercare con insistenza un accordo sul nucleare iraniano. Spesso è stata evocata la volontà di lasciare una legacy, un’eredità positiva della sua presidenza con un successo lì dove finora erano falliti tutti i teantativi diplomatici. Ma al di là delle ragioni di prestigio, la convinzione che per cambiare il comportamento di un governo ostile sia necessario un engagement costante, invece che l’uso immediato della forza militare, è sempre stata una parte centrale della politica estera di Obama, come ha ricordato il giornalista del Washington Post Greg Jaffe.
In attesa che i negoziati si concludano davvero, per Obama essere riuscito a raggiungere un accordo di base sui punti principali è una rivincita nei confronti di chi lo aveva attaccato, considerando un’ingenuità il sedersi al tavolo con un paese ostile, e soprattutto sull’opposizione repubblicana, che aveva provato in diversi modi a sabotare la firma dell’intesa, in asse con l’altro irriducibile oppositore del negoziato, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, invitato a parlare al Congresso – proprio dai repubblicani – per accusare Obama di stare di fatto dando il via libera alle armi atomiche iraniane.
Proprio Netanyahu – almeno in apparenza – risulta il grande sconfitto dell’accordo siglato giovedì. Da sempre convinto che l’unica soluzione accettabile per il suo paese sia solo una completa eliminazione del programma nucleare iraniano, il primo ministro israeliano aveva puntato tutto sulla possibilità di far saltare le trattative, arrivando a mettere a mettere a rischio – per raggiungere l’obiettivo – anche i rapporti tra Israele e questa amministrazione Usa, ormai ai minimi termini. Ora che un’intesa è stata raggiunta, il Gabinetto di Sicurezza del governo israeliano ha respinto la bozza di accordo, dichiarando che lo considera un modo di lasciare intatto il programma nucleare iraniano, e chiedendo che «ogni accordo finale includa un chiaro e non ambiguo riconoscimento del diritto di Israele di esistere». Al di là della retorica, però, l’aver alzato notevolmente i toni può essere servito a Netanyahu almeno per condizionare Obama sul raggiungimento di un’intesa più vantaggiosa, soprattutto dal punto di vista della durata dei controlli.
Ma l’importanza di Netanyahu nella partita che continuerà sui futuri negoziati sembra ridotta, anche a causa del rapporto ormai deteriorato con Obama. Lo conferma anche il fatto – non sfuggito a molti analisti – che nel suo discorso sull’intesa il Presidente Usa ha dichiarato di aver sentito il sovrano saudita Salman prima della firma, mentre ha informato il premier israeliano solo a cose fatte.
Sono infatti soprattutto i paesi sunniti – i tradizionali rivali dell’Iran – i partner che Obama dovrà rassicurare adesso, per evitare che un accordo nato per scongiurare la proliferazione nucleare in Medio Oriente finisca in realtà per provocarla: spaventati dal notevole “attivismo” di Teheran in questa fase (in Iraq, Siria e ora anche Yemen, e considerando la “tradizionale” presenza in Libano), i suoi rivali potrebbero infatti concludere che l’unico modo per scongiurare una netta egemonia regionale iraniana sia dotarsi di un proprio programma atomico. Non a caso Obama ha affermato di aver invitato i rappresentanti del Consiglio di Cooperazione del Golfo alla Casa Bianca per discutere con loro dell’attuale situazione in Medio Oriente.
In molti si stanno chiedendo se questo “pre-accordo” sia l’inizio di una più ampia cooperazione tra Stati Uniti e Iran sullo scenario mediorientale. Obama, nella sua dichiarazione dopo l’intesa di Losanna, ha condannato «il sostegno dell’Iran al terrorismo e il supporto a suoi alleati che destabilizzano il Medio Oriente». Su molti scenari gli Stati Uniti e l’Iran rimangono su fronti opposti, e ci sono ancora distanze enormi su diversi temi, ad esempio la detenzione di cittadini statunitensi nelle carceri iraniane – come il giornalista Jason Rezaian. Ma la firma dell’accordo, e la strana “cooperazione” per liberare la città irachena di Tikrit dall’Isis, dove un’offensiva di terra inizialmente coordinata dall’onnipresente generale iraniano Qassem Soleimani è stata poi sostenuta – dopo la richiesta del governo iracheno – dall’aviazione americana, potrebbero suggerire una collaborazione più ad ampio raggio. Per ora è forse solo un’ipotesi temeraria, ma dopo la firma degli accordi di Losanna è chiaro che per questa amministrazione Usa l’equilibrio del Medio Oriente passa anche, se non per una pace, almeno per un containment che riconosca il ruolo di Teheran. E considerando che solo quattro anni fa l’Iran abbatteva un drone americano, e che gli Usa accusavano ufficiali iraniani di aver complottato per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington, l’intesa raggiunta in questi giorni sembra già un successo diplomatico quasi miracoloso.