All’ombra di piața Revoluției, nel centro di Bucarest, la rivoluzione che pose fine alla dittatura di Nicolae Ceausescu è un ricordo ancora vivo. Da allora la Romania ha vissuto numerosi cambi di governi. Tra il 2004 e il 2007 è entrata nella Nato e nell’Ue. Eppure, per la maggior parte dei rumeni la piena democrazia è una tappa non ancora raggiunta. Il comunismo è uno spauracchio che a molti continua a far paura. Corruzione e lavoro nero sono fenomeni sociali molto radicati, come dimostra il recente scandalo che ha coinvolto l’ex presidente, Traian Băsescu, provocandone l’impeachment.
Alle elezioni politiche dello scorso novembre il candidato liberal-democratico, Klaus Johannis, ha battuto al secondo turno il rivale del partito socialdemocratico, Victor Ponta, grazie al voto decisivo dei rumeni all’estero. Una grande voglia di cambiamento al grido di “Victor Ponta, i giovani non ti vogliono”, e con file lunghissime ai seggi delle ambasciate rumene di mezza Europa, è stata espressa da una nuova generazione di rumeni che si affida a internet e non è più facilmente manipolabile dalla censura dei mezzi di informazione. Non è un caso che, 25 anni dopo, Johannis abbia nuovamente parlato di «rivoluzione per la Romania». Parole d’ordine: più trasparenza, meno corruzione.
Ma i rumeni sanno anche che per ripartire occorre fare chiarezza su ciò che accadde allora. Ne è convinto più di tutti Grigore Cartianu, giornalista di Adevarul. Uno dei suoi ultimi libri («La fine dei Ceausescu», tradotto da Alberti) ha scatenato un vespaio di polemiche. «Nel 1989 non vi fu alcuna rivoluzione – si legge nell’introduzione – i rumeni sono stati delle pedine inconsapevoli di un crimine di massa», denuncia, ricordando la fucilazione dei coniugi Ceausescu al termine di un processo farsa. Basandosi sugli stenogrammi delle riunioni del Comitato centrale e decine di documenti inediti, Cartianu sostiene che la rivoluzione fu un colpo di Stato organizzato dal gruppo di potere interno a Ceausescu, guidato da Ion Iliescu e dal Generale Stanculescu con l’avallo di Mosca. «Dopo la rivoluzione – continua – abbiamo avuto un regime neo-comunista guidato, guarda caso, da ex collaboratori di Ceausescu». A dire il vero già altre inchieste, come quella del giornalista britannico, Ed Vulliamy, pubblicata su The Guardian nel 2009, avevano scatenato più di un dubbio sull’autenticità democratica del processo rivoluzionario. Ma Cartianu va oltre, ipotizzando la mano dei sovietici anche dietro la rivolta di Timisoara, dove tutto ebbe inizio. Da parte sua Ion Iliescu, uno dei protagonisti di allora, si è limitato ad accusare Cartianu di «smerciare porcherie».
Dall’altra parte della città l’arco di Trionfo ricorda a tutti che una volta Bucarest era soprannominata “la Parigi dell’est”. Emile Costantinescu, presidente della Repubblica dal 1996 al 2000 e primo leader non comunista della Romania, vive da quelle parti. «Cartianu? Sbaglia – taglia corto – certe teorie complottistiche non pagano. La rivoluzione rumena si inserisce nel processo di riscatto collettivo che caratterizzò i movimenti dell’‘89». Per lui ciò che avvenne dopo non ne mina la credibilità. «Dobbiamo a quella rivolta popolare il fatto che oggi siamo un Paese più maturo. E la caduta di Ceausescu sembrava impossibile in quel momento».
Nella seconda metà degli anni ‘80 inizia il nuovo corso di Gorbaciov in Unione Sovietica ma la Romania non viene toccata dai grandi cambiamenti innescati dalla glasnost e perestrojka. Da anni i cittadini protestano contro la politica economica di Ceausescu. Il 15 dicembre 1989, a Timisoara, scoppia la scintilla decisiva. Le autorità rumene decidono di espellere il pastore ungherese Laszlo Tőkés, già inviso al regime comunista per le sue critiche. In poco tempo la manifestazione si trasforma in una rivolta contro il dittatore. L’esercito e la Securitate (la polizia segreta) reprimono la protesta nel sangue ma poi si ritirano. Il 20 dicembre Timisoara viene proclamata “città libera dal comunismo”.
Il giorno dopo Ceausescu decide di organizzare una contromanifestazione a Bucarest. Dal balcone che lo aveva acclamato quattro decenni prima, il Conducator promette alcune riforme e l’aumento delle pensioni. All’improvviso parte della folla inizia a fischiarlo e scoppiano i primi tafferugli. L’esercito circonda la piazza e spara contro i manifestanti. Poche ore dopo Ceausescu e sua moglie Elena fuggono in elicottero. La popolazione innalza barricate e riceve notizie sporadiche dalla radio e dalla sede della televisione nazionale, occupata dai rivoluzionari. Ion Iliescu, leader del Fronte di Liberazione Nazionale ma con un lungo passato al fianco di Ceausescu, forma il governo provvisorio d’intesa con il generale Stanculescu. Il giorno di Natale arriva la notizia della fucilazione del Conducator e di sua moglie.
Per molti quella rumena fu il primo caso di rivoluzione in diretta televisiva. «E di manipolazione», aggiunge Cartianu. Alcuni episodi non sono mai stati chiariti, dal carnaio di Timisoara, un mito utilizzato dagli oppositori del regime, alla rivolta popolare di Bucarest, dietro la quale ci sarebbe la mano di alcuni “disturbatori” manovrati dall’esterno. «Chiacchiere – ribatte Costantinescu – la protesta fu spontanea, sia a Bucarest sia a Timisoara, dove fu elaborato un programma politico prima che Ceausescu scappasse»
Polemiche a parte, la rivoluzione continua ad appassionare. «L’Occidente dovrebbe ringraziarci – afferma Costantinescu – perché ciò che è avvenuto in Romania e negli altri paesi satelliti gli ha regalato un ethos e nuovi valori». Ma non dimentica i problemi attuali. «Oggi non viviamo una crisi politica o sociale ma morale. Durante la rivoluzione abbiamo combattuto per la libertà. Siamo entrati nella Nato e nell’Ue. Da allora, però, è mancato un progetto comune. L’Europa si è burocratizzata. Ma noi non dimentichiamo da dove veniamo. Certe polemiche non aiutano ad andare avanti. E oggi siamo più che mai democratici ed europei», conclude, rivendicando quei risultati come frutto delle politiche del suo mandato.
Oggi per la Romania la sfida più grande è il presente e ha il nome di Iohannis: un leader della minoranza tedesca protestante eletto in un Paese neolatino e ortodosso. Un chiaro segnale politico. I rumeni sperano in una seconda rivoluzione. Questa volta, senza fantasmi.