Ciò che sta accadendo in Ungheria da qualche anno a questa parte sembra aver attirato l’attenzione di studiosi e analisti, che si sono sforzati di interpretare il regime politico di Viktor Orbán, anche a costo di proporre termini come putinismo e democratura. Ma a ben vedere, democrazia illiberale è la diade che va per la maggiore, frutto delle ricerche del politologo americano Fareed Zakaria. Il copyright a livello governativo appartiene però ad Orbán. In un celebre discorso, tenuto in Transilvania lo scorso luglio, il premier ungherese aveva definito “obsoleto” il liberalismo applicato alla democrazia.
Una critica che proviene da un Paese membro dell’Unione Europea, e che fa rumore. Anche perché Orbán si scaglia contro la politica economica dei “burocrati di Bruxelles”, e contemporaneamente strizza l’occhio a Putin. La Russia, infatti, sembrerebbe offrire maggiori garanzie agli ungheresi, soprattutto dal punto di vista energetico. Ma Orbán guarda anche a oriente. Nel decennio 2003-2013, il commercio bilaterale tra Ungheria e Cina è cresciuto di sei volte, e le esportazioni ungheresi hanno raggiunto i 2 miliardi di dollari nel 2013. E, guarda caso, Russia e Cina, senza dimenticare la Turchia, sono i modelli ai quali il primo ministro si ispira. Da un lato il dirigismo oligarchico di Putin, che sacrifica i principi democratici e i diritti civili in nome di una politica neo imperiale; dall’altro l’autoritarismo cinese dei “comunisti in doppiopetto” che inneggiano al capitalismo senza democrazia. Denominatore comune quello della leadership forte, in una sorta di democrazia controllata nella quale sopravvivono le istituzioni formali ma di fatto si esercita la dittatura della maggioranza. Gli ultimi provvedimenti di Orbán, dalla modifica della Costituzione alla legge bavaglio contro i media, sembrano andare in questa direzione.
Ma il premier ungherese è stato il politico più abile anche nell’utilizzare a suo favore le contraddizioni della crisi economica e della globalizzazione. Le democrazie occidentali arrancano sotto i colpi dell’austerity e il sistema liberale dei pesi e contrappesi sembra essere una zavorra che imbriglia le decisioni, più che una garanzia di governo, soprattutto in un momento di recessione. Le critiche di Orbán all’Unione Europea e al sistema liberal-democratico vanno inquadrate in un contesto di profonda incertezza, che prevede la logica dei risultati da ottenere in fretta, più che un’analisi ponderata sulle modalità dei processi decisionali da adottare per una policy convincente. Non a caso, Orbán ha più volte ribadito che “la maggiore preoccupazione degli ungheresi è quella di pagare le bollette”.
Secondo alcuni analisti quello di Orbán è un regime politico nel quale convive un’accozzaglia di idee ma senza un vero involucro ideologico. Nazione, chiesa, famiglia, patria, sono elementi centrali di un acceso “nazionalismo di tipo sacrale”, per utilizzare le parole dello scrittore ungherese László Bitó, venato di accenti populisti. La comunità ungherese viene concepita come una somma di individui nella quale non c’è posto per i nemici della nazione e per “diversi”. Si spiegano così alcune leggi che, con la scusa garantire l’ordine pubblico, criminalizzano i senzatetto e gli zingari. Per la filosofa Agnes Heller, Orbán ricalca un modello di tipo bonapartistico, anche per la vocazione plebiscitaria con cui sembra concepire il meccanismo delle elezioni politiche, spesso considerate un referendum sulla sua persona.
Eppure, alle ultime elezioni suppletive dello scorso febbraio il partito di governo, Fidesz, ha avuto una battuta d’arresto, perdendo la maggioranza dei 2/3 in parlamento. Una sconfitta in parte inattesa, forse frutto di un calo di popolarità già fotografato da alcuni sondaggi, ma che potrebbe costituire una sfida interessante in vista delle nuove elezioni intermedie di aprile.
Allo stesso tempo, la partita è ancora tutta da giocare anche in Europa. Le politiche economiche decise da Bruxelles hanno provocato molto risentimento, e non solo in Ungheria. La polemica anti-occidentalista di Orbán gioca molto sulle mancate soluzioni che l’Ue non è riuscita a dare, e che minacciano la stabilità politica di molti paesi europei, soprattutto in Europa dell’est, dove la transizione dal comunismo alla democrazia non è stata gestita ovunque in modo ottimale. Da più parti si teme che il regime ungherese possa fare proseliti in altri paesi, Slovacchia, Polonia e Croazia in primis. Le democrazie occidentali sono chiamate a decidere quale sia il sistema politico che dovrà prevalere al tempo della crisi. Una battaglia che si giocherà in nome dei principi democratici, ma anche della capacità di ottenere risultati.