Benjamin Netanyahu cerca un quarto mandato da protagonista alla guida di Israele. A dicembre ha sciolto la Knesset prima che le divergenze all’interno della coalizione di governo diventassero logoranti. Quindi elezioni anticipate al 17 marzo, due anni prima della scadenza naturale del suo mandato. Probabilmente riuscirà a vincere ancora. Forse non grazie al voto diretto delle urne, che stando ai sondaggi potrebbe consegnare la maggioranza relativa alla coalizione guidata dai laburisti. Ma in Israele la formazione dei governi dipende in gran parte dagli accordi che i partiti riescono a stringere a urne chiuse. E l’elettorato negli ultimi anni sembra sempre più incline a favorire la metà destra del parlamento, cioè gli ex alleati di governo di Netanyahu. Trovare la quadra, quindi, non sarà così semplice.
L’attraente curriculum di Netanyahu
Netanyahu sta senz’altro sfoderando le migliori armi a sua disposizione. All’inizio di marzo ha perorato la sua avversione per un Iran nucleare di fronte al Congresso degli Stati Uniti. Un’avventura di dubbio successo, fra Obama che non l’ha voluto ricevere e le molte critiche indirizzategli dagli avversari in Israele, che lo hanno accusato di cercare un mero trampolino elettorale. Può contare sull’onda lunga dell’intervento a Gaza dell’estate scorsa, e in occasione degli ultimi attentati a Gerusalemme ha promesso pugno di ferro sulla questione sicurezza.
E poi c’è la sua storia. Primo premier nato in Israele, con un passato di spicco nelle forze speciali dell’esercito. È stato in prima linea durante la guerra dei Sei Giorni del ’67, l’offensiva dello Yom Kippur lo ha visto impegnato lungo il canale di Suez e in Siria. Quindi carriera diplomatica da ambasciatore all’ONU fra l’84 e l’88, per poi entrare in politica nelle file del Likud, il partito fondato dal leader storico della destra conservatrice Menachem Begin. Premier nel ’96, ministro delle Finanze e degli Esteri sotto Ariel Sharon, da cui si distanzia a causa del ritiro israeliano da Gaza nel 2005. Da allora si è preso il partito, riuscendo a vincere le elezioni del 2009 e del 2013.
Con gli anni le sue posizioni sulla questione palestinese assumono toni apparentemente più da colomba. Ha rifiutato in blocco gli accordi di Oslo, per poi aprire alla soluzione dei due Stati, ma opponendosi sempre a una Gerusalemme divisa e al diritto al ritorno per i palestinesi. Nel 2009 si è trovato costretto a guidare un esecutivo di unità nazionale con i laburisti e la destra ultra-ortodossa, comunque migliore di quello attuale per la fluidità dell’azione di governo. Oltre a Yisrael Beiteinu, il partito del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman con cui era unito in un ticket elettorale, il Likud di Netanyahu ha trovato un accordo estremamente fragile con Yesh Atid e HaBayit HaYehudi. È proprio dai continui litigi con i leader di questi schieramenti, Yair Lapid e Naftali Bennett, che nasce la decisione di tornare alle urne a marzo.
Bennett il rottamatore
Naftali Bennett è l’astro nascente della politica israeliana. L’attuale ministro dell’Economia ha saputo portare il suo partito, HaBayit HaYehudi (La Casa Ebraica), dal risultato risicato del 2009 al successo di quattro anni dopo. I voti erano poco più di 100mila e sono triplicati, ancor meglio con i seggi della Knesset che sono passati da 3 a 12. In un ordinamento monocamerale con 120 deputati significa detenere una fetta importante di voti e, a seconda delle divisioni nell’emiciclo, la parola finale sulle sorti della maggioranza. Una situazione che si è puntualmente verificata nel 2013, quando è stato il Likud a pagare in termini di consenso l’esperienza del governo di unità nazionale.
La traiettoria di Bennett si muove a cavallo della politica come professione, ma senza farsene ingessare. Nato come imprenditore informatico, sul portafoglio di Bennett transitano centinaia di milioni di dollari grazie al successo di aziende come Cyota e Soluto. Entra in politica nel 2006, trovando posto nell’ufficio di Netanyahu che all’epoca era all’opposizione. Decide di non competere alle elezioni del 2009 e l’anno seguente fonda il movimento extraparlamentare Yisra’el Sheli (La Mia Israele). Ufficialmente descritto come “movimento sionista”, in realtà garantisce a Bennett una buona base elettorale grazie soprattutto alla grande attività che svolge sui social network. La sua pagina facebook in ebraico conta quasi 150mila sostenitori. Grazie a questo palcoscenico collaterale, l’attuale ministro dell’Economia può sfruttare un canale in più per far valere le proprie posizioni, intransigenti tanto quanto quelle del primissimo Netanyahu, che gli stanno permettendo di contendere al suo mentore il ruolo di figura di riferimento per l’elettorato del centro-destra. Bennett sa di poter puntare in alto: il suo obiettivo dichiarato è il comando della Difesa.
C’erano una volta Lapid e Livni
Sono invece in discesa le quotazioni dell’altra grande sorpresa delle ultime elezioni, ovvero Yair Lapid. Anche sull’onda della celebrità del leader – Lapid è stato un famoso anchorman fino a poco tempo prima di ufficializzare la sua candidatura – Yesh Atid (C’è un futuro) aveva conquistato 19 seggi alla Knesset, diventando a tutti gli effetti il primo partito ed entrando nella compagine di governo. Un risultato degno di nota per una formazione creata quasi da nulla appena due anni prima, che Lapid ha capitalizzato prendendosi la poltrona da ministro delle Finanze. Ma il consenso sta lentamente scemando, i sondaggi lo vedono calare con lenta inesorabilità fin da pochi mesi dopo l’insediamento. Viste le posizioni tradizionalmente moderate, non è da escludere del tutto un’alleanza dell’ultimo minuto coi laburisti.
Chi invece scalpita per ritagliarsi un ruolo di primo piano è Tzipi Livni con il suo Hatnuah (Il Movimento), partito di ispirazione prettamente liberale che il 17 marzo si presenterà in ticket con i laburisti. Un salto di campo che Livni, esponente dell’ala progressista del Likud prima e di Kadima poi (il partito nato con la scissione di Sharon dal Likud nel 2006), è costretta a compiere per non finire annullata nell’affollato settore destro dello spettro politico israeliano. La priorità di Livni è difendere il risultato del 2013 (solo 6 seggi) dall’innalzamento della soglia di sbarramento al 4%, una misura che per il momento non la preoccupa, anzi ha conseguito l’unico risultato tangibile di unire in vista delle urne i tre principali partiti arabi. Benché protagonista della politica di Israele dal 2001, e quasi ininterrottamente a capo di ministeri di rilievo (Esteri, Giustizia, Alloggi e Edilizia), difficilmente Livni riuscirà ad assumere un ruolo decisivo nel prossimo esecutivo: l’unica possibilità, visto che la sua coalizione coi laburisti oscilla secondo i sondaggi fra i 22 e i 24 seggi, è proprio quel governo di unità nazionale che forse solo una figura come Netanyahu potrebbe guidare.
Foto: Miriam Alster-Flash90