Il Karakalpakistan è tra le zone più povere di tutta quella che fu l’Unione Sovietica, il territorio di questa regione semi autonoma nel nord dell’Uzbekistan è dominato dallo scempio ambientale del Lago d’Aral. Dove una volta fu acqua oggi resta il deserto, la cui sabbia viene sparsa dai venti causando innumerevoli malattie respiratorie alla popolazione, senza contare la minacciosa presenza dell’isola di Vozrozhdeniye, fino al 1992 luogo deputato agli esperimenti dell’Armata Rossa: qui si sviluppavano le armi biologiche, molte delle quali a base di antrace. Il rapporto con il governo uzbeko non è buono, a complicare le cose la crisi Ucraina.
Dall’inizio della crisi ucraina, nel marzo del 2014, è venuto alla luce un movimento indipendentista karakalpako: Alga Karakalpakstan! (Forza Karakalpakistan!). Attivo in realtà dal 2013, questo movimento è guidato da Aman Sagidullaev, uomo d’affari uzbeko scappato dal paese nel 2011 dopo essere stato accusato della sottrazione di un milione di dollari da un’azienda di trattori. Dal Kirghizistan Sagidullaev rivolge appelli alla Russia, finora inascoltati, invitando la popolazione karakalpaka a rovesciare il governo di Nukus, la capitale del Karakalpakistan.
Sino a questo momento Alga Karakalpakstan!, a cui appartengono diversi ufficiali ed ex-membri dell’élite uzbeka, non ha ottenuto molti risultati, ad eccezione di un mandato di cattura internazionale per il suo leader. Questo non ha tuttavia fermato le volontà indipendentiste del movimento, che dalle pagine della sua agenzia di stampa, Shiraq News, continua la campagna per l’indipendenza. Questa regione potrebbe diventare per Tashkent un vero problema, che si sommerrebbe a quello rappresentato da un’altra regione calda uzbeka: la valle di Ferghana.
Nel frattempo i karakalpaki emigrano per sfuggire a delle condizioni di vita durissime: Kazakistan, paese di cui sarebbero originari, Russia ed anche Corea del Sud. Al tempo dell’Unione Sovietica questa popolazione ha cambiato più volte nazionalità, fenomeno che continua tutt’oggi. I karakalpaki che si stabiliscono in Kazakistan tendono infatti a farsi passare per kazaki, in modo da poter accedere all’assistenza sociale di quel paese, mentre quelli che restano in Uzbekistan assumono lo status di uzbeki per avere meno problemi nella ricerca di un posto di lavoro.
Il popolo karakalpako sta quindi vivendo una lenta erosione della sua identità, ossia della premessa indispensabile per la sua sopravvivenza come comunità. La diaspora all’estero è numerosa, circa un milione e mezzo di persone, il che rende i legami con le proprie radici ancora più labili. L’indipendenza rivendicata da Alga Karakalpakstan! rischia di essere un’indipendenza calata dall’alto, senza il coinvolgimento popolare e senza l’entusiasmo di una lotta sentita e voluta. Secondo alcuni intellettuali locali, l’opera di Sagidullaev rischia di essere addirittura controproducente, dando occasione al governo uzbeko di reprimere ancora di più la popolazione.
Le vicende di Alga Karakalpakstan!, nonostante il silenzio della autorità russe, stanno attirando l’attenzione dei media della regione. Mentre i separatisti dicono di attendere un segnale dal Cremlino, con il rischio di uno scenario “ucraino” che secondo alcuni analisti non sarebbe impossibile, la vita di uno dei popoli più disagiati dell’intera Asia Centrale continua; ed il lago d’Aral rischia di scomparire, proprio come i karakalpaki.
Fonte immagine: Ivan Safyan Abrams – Flickr
Foundry, M. Ishanov (1950-1984) – Savitsky Museum of Art, Nukus
Ho letto l’editoriale del Guardian a cui si fa riferimento. E qualche problema l’ho incontrato. Più che voglia di indipendenza nella popolazione sembra che ci sia un movimento indipendentista del quale l’autore del pezzo sul Guardian sembra un simpatizzante. Lungi da me difendere in alcun modo le divisioni geografiche sovietiche o i regimi centroasiatici contemporanei, ma non so quanto quella fonte possa essere attendibile su ciò che accade in KKPS. Col poco di notizie che filtrano dall’Uzbekistan facciamo già fatica a capire a grandi linee ciò che succede. Non so se questo contributo serva più a fare luce o a confondere. Insomma, sempre bene scrivere di regioni dimenticate, ma l’articolo sul Guardian mi ha proprio deluso.