La comunità internazionale guarda la Tunisia pensando che delle tante “primavere arabe” la “Rivoluzione dei Gelsomini” tunisina sia l’unica ad aver intrapreso un processo di transizione verso un nuovo assetto istituzionale democratico che oggi sembra avere raggiunto, almeno formalmente, una conclusione con l’approvazione della nuova Costituzione il 26 gennaio dell’anno scorso. Il 5 gennaio 2015 l’ex ministro dell’Interno, Habib Essid, è stato incaricato dal neo presidente Beji Caid Essebsi di formare un nuovo governo e, secondo la Costituzione, ha un mese di tempo per ottenere la fiducia in Parlamento.
Verso una giustizia di transizione in Tunisia: la legge organica del dicembre 2013
Resta aperta la questione fondamentale della giustizia, una giustizia di transizione che ha come obiettivo quello di affrontare le gravi violazioni dei diritti umani commesse nell’arco di 58 anni in cui si sono alternati i regimi autoritari di Habib Bourguiba e Zine El-Abidine Ben Ali. Tali crimini comprendono arresti arbitrari, detenzioni in isolamento, l’uso della tortura, processi iniqui, trattamenti disumani dei prigionieri, ogni forma di abuso di potere compiuto dall’apparato statale contro i cittadini per mettere a tacere le voci dissidenti, fino ad arrivare alla rivoluzione del 2010-2011 con la repressione dei manifestanti ad opera delle forze di polizia.
L’adozione della Legge organica regolante la giustizia di transizione il 24 dicembre 2013 potrebbe rappresentare una svolta promettente. La legge istituisce una Commissione per la Verità e la Dignità e sezioni specializzate all’interno dei Tribunali penali nazionali con il compito di perseguire i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani commessi dal 1955 al 2013. Ma tutto dipenderà dalle concrete modalità con cui le istituzioni attiveranno questi strumenti. Un traguardo complicato, frutto di una lunga fase di compromessi con la giustizia che rispecchia un’instabilità politica pressoché costante.
Il “verdetto della vergogna”
Il 12 aprile 2014 era arrivato l’atteso giudizio della corte d’appello del tribunale militare di Tunisi, che molte voci hanno definito come il “verdetto della vergogna e dell’impunità”, emesso nei confronti dei principali accusati per abuso di potere nella repressione dei manifestanti attuata a Thala, Kasserine e Grand Tunis durante la rivoluzione del gennaio 2011. Insieme a Ben Alì c’erano 57 imputati fra cui i responsabili della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico dell’epoca, l’imputazione originale li accusava di complicità per omicidio volontario e tentato omicidio. In base alle disposizioni del codice penale, le pene applicabili andavano dai 10 ai 37 anni.
L’unico ad essere stato condannato all’ergastolo è stato Ben Alì, processato in contumacia, mentre per gli altri imputati la corte ha riclassificato l’accusa come omicidio colposo. Di questi, 25 sono stati assolti e gli altri sono stati condannati a 3 anni di carcere o meno. Immediate le proteste delle vittime, Human Rights Watch ha parlato di un vero e proprio fallimento del sistema giudiziario tunisino. Nel rapporto Flawed Accountability: shortcomings of Tunisia’s Trials for Killings during the Uprising era stato in particolare evidenziato che la legge penale tunisina non prevedesse ipotesi di responsabilità dei vertici delle forze di polizia per i crimini commessi dai subordinati e questo aveva impedito la condanna dei maggiori responsabili: i vertici dell’apparato statale. Inoltre si rimproverava al governo tunisino di aver fatto pochi sforzi per ottenere l’estradizione di Ben Ali, fuggito in Arabia Saudita, e processarlo di persona, privando il processo di un testimone chiave.
Tre modelli di giustizia di transizione. Quale schema per la Tunisia?
Con il termine “giustizia di transizione” si intendono gli strumenti che uno Stato decide di adottare per affrontare le gravi violazioni dei diritti umani commesse durante un precedente regime politico che ha coinvolto il paese. Tale processo caratterizza nella maggior parte dei casi il passaggio da un regime autoritario, in cui tali crimini sono stati commessi, ad un nuovo sistema democratico. Per un’indagine puramente teorica si possono indicare tre modelli cosiddetti “puri” di giustizia di transizione che vanno ad indicare gli strumenti giuridici adottati, con la premessa che nella realtà difficilmente si realizzano, poiché gli Stati in transizione adottano compromessi e variazioni che si adeguano ad esigenze socio-politiche concrete e subiscono modificazioni continue.
Il primo è il “modello della prosecuzione penale” che si realizza quando lo Stato decide di punire tutti i responsabili ricorrendo a veri e propri processi penali. Il secondo viene definito il “modello del colpo di spugna” per indicare la scelta da parte dello Stato di optare per l’impunità dei responsabili e di emanare leggi di amnistia, totali o parziali, che impediscono di perseguire i crimini commessi. Solitamente quest’ultima soluzione risponde alla constatazione che la crisi politica e sociale non è stata del tutto superata e le istituzioni temono che lo strumento penale possa causare ritorsioni da parte di alcune frange della popolazione e mettere a rischio la pace appena raggiunta, oppure perché le istituzioni stesse sono ancora colluse con il passato regime. Infine il “modello della conciliazione” prevede la costituzione di “Commissioni per la verità” con il compito di promuovere la riconciliazione nazionale, accertare i crimini commessi, ricostruire la memoria collettiva, risarcire le vittime. Quest’ultimo strumento può prevedere la punizione dei responsabili ma non necessariamente, e tendenzialmente prevede pene ridotte per tutti i responsabili che volontariamente decidano di cooperare con la Commissione alla ricostruzione della verità dei fatti.
L’esempio più conosciuto di “Commissione per la verità” è sicuramente la Truth and Reconciliation Commission (Commissione per la Verità e Riconciliazione) istituita nel 1995 in Sudafrica con il delicatissimo compito di gestire il superamento del regime di apartheid. L’unicità di questo strumento risiedeva nell’idea di offrire a tutti coloro che avevano commesso i crimini la possibilità di confessare pubblicamente, davanti alle vittime, in cambio dell’impunità. Si trattava di una libera scelta, le dichiarazioni sarebbero state verificate e giudicate da un apposito Comitato e se giudicate veritiere avrebbero scongiurato la possibilità di una futura prosecuzione penale.
Analizzando tale sistema emerge chiaramente la funzione costituente della TRC come strumento di costituzione di una nuova unità tra le parti sociali. La pubblica confessione rappresentava il patto che la costituenda società chiedeva ai suoi cittadini di siglare per poter dimostrare l’abiura dell’ideologia politica segregazionista ed il rispetto del nuovo ordine democratico. Ciò che interessava era raccogliere una pubblica delegittimazione del passato regime, ricostruire una visione condivisa del passato, bloccando ogni possibile focolaio di resistenza istituzionalizzata al nuovo ordine democratico.
Una giustizia che si rivolge al passato, per superarlo e costruire un presente fondato su valori democratici condivisi da tutta la popolazione, questa è la sfida di ogni transizione verso la democrazia. Oggi la popolazione tunisina chiama le istituzioni a fare i conti con il proprio passato. Dopo le forti critiche al “verdetto della vergogna” di una giustizia imperfetta, la speranza risiede nella nuova legge sulla giustizia di transizione.
A mio giudizio la cosa migliore é seguire la Spagna e il Sudafrica che hanno steso un velo sul passato per un migliore avvenire.
Sorge spontanea una domanda: Nell’Unione Sovietica e negli stati vassalli il problema come é stato risolto. Credo che non avrò risposta.