Parlare di Europa si deve, recita uno slogan pubblicitario di una campagna volta a spiegare all’opinione pubblica italiana che non solo matrigna è l’Unione Europea, ma anche foriera di buone regole e garanzie per il cittadino. La campagna, in onda sulla televisione pubblica italiana, risponde così alle molte demagogie che circolano in merito alle questioni europee. Tuttavia, se parlare d’Europa si deve, sarebbe buona regola non limitarsi alle sviolinate distinguendo, dapprincipio, il concetto di Europa (l’idea di Europa, come dicono i filosofi e i politologi) da quello di Unione Europea. Uno dei mantra che costantemente vengono recitati dagli europeisti – tra i quali chi scrive si annovera, anche se su posizioni ereticali – è quello della pace: l’Unione Europea ha garantito la pace in Europa, il più lungo periodo di pace che il continente abbia mai conosciuto, e grazie a quella pace c’è stato sviluppo, crescita economica, e diritti civili. Il sottotesto di questo messaggio è: per la pace, bene supremo, bisogna mandare giù qualche riforma economica sbagliata e un assetto politico al momento a-democratico. Ubi maior, minor cessat. Ma l’Unione Europea è stata davvero garante della pace?
Il Comitato norvegese per il premio Nobel per la pace decise di premiare, nel 2012, proprio l’Unione Europea. Secondo i norvegesi,”l’Unione e i suoi precedessori hanno contribuito per oltre sei decenni all’avanzamento della pace, della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa“. Partiamo dai predecessori allora e vediamo se è stato come dicono i signori del Nobel. Quando il 18 aprile 1951 con il Trattato di Parigi venne istituita la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) fu chiaro che l’intento non era solo economico. I principali giacimenti si trovavano in aree da sempre contese, il cui possesso è stato alla base di molti conflitti compresa la Seconda guerra mondiale che, al momento della firma, era terminata da appena sette anni. La scelta di mettere in comune il settore carbo-siderurgico consentiva di regolare la produzione di armamenti e materiale bellico impedendo un riarmo segreto delle nazioni coinvolte. L’iniziativa della CECA venne dai politici francesi Jean Monnet e di Robert Schuman (il cosiddetto “Piano Schuman” o “dichiarazione Schuman” del 9 maggio1950). Lo stesso Schuman dichiarò: “la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”. E la CECA fu coraggiosa e creativa, senz’altro. Possiamo quindi dire che sì, la CECA ha contribuito alla pace e alla riconciliazione. E dopo?
Dopo ritroviamo lo stesso Schuman opporre un netto rifiuto al progetto di un esercito comune europeo. Quella della Comunità europea di difesa (CED) fu un’idea che, a inizio anni ’50, venne lanciata da ambienti diplomatici italiani e che trovò l’opposizione francese timorosa di un riarmo della Germania. La proposta del governo italiano, influenzata dalle idee di Altiero Spinelli (in quel momento vicino a De Gasperi), chiedeva di istituire un’assemblea per la gestione dell’esercito integrato, la quale avrebbe anche dovuto occuparsi di studiare la costituzione di un organo rappresentativo democratico. Gli Stati Uniti non si opposero al progetto che, anzi, all’epoca videro come una possibilità di alleggerimento dei costi militari per la NATO. Se “i padri fondatori” avessero davvero voluto porre l’Europa al sicuro da se stessa, cosa c’era di meglio di un esercito comune che avrebbe, oltretutto, portato l’Europa verso una piena autonomia politica? Ma si preferì il vassallaggio americano. Da allora fu la NATO, e non un’istituzione europea, a garantire la pace in Europa. E di questo dobbiamo ringraziare lo stesso Schuman.
Quando nel 1966 Charles de Gaulle decise l’uscita della Francia dal comando militare NATO per poter perseguire il proprio programma di difesa nucleare, il quartier generale dell’Alleanza Atlantica venne trasferito da Parigi a Bruxelles che, da allora, sarà la “capitale” della sicurezza militare in Europa. Si è dovuto attendere il Trattato di Lisbona (2007) perché l’Unione Europea rimettesse sul piatto l’ipotesi di un esercito comune (“La politica estera e di sicurezza comune deve includere la progressiva formazione di una politica di sicurezza comune. Ciò condurrà ad una difesa comune, quando il Consiglio europeo, agendo unanimemente, deciderà così.” – TUE, articolo 27).
La pace si prepara e si favorisce attraverso l’eliminazione dei motivi di contesa, come fece la CECA, ma si mantiene solo attraverso una presenza militare, nel nostro caso la NATO. Certo, dare alla NATO il premio Nobel per la pace sarebbe stato azzardato (anche se poi lo si darà al commander-in-chief delle forze armate del paese guida dell’Alleanza, ovvero il presidente americano Barack Obama) ma, consentite il paradosso, la pace in Europa è stata garantita dalla presenza militare NATO (e americana): una presenza che porta con sé anche un’influenza politica ed economica e che si profila più come un “vassallaggio” che come una reale “garanzia”. La pace in Europa è dunque il frutto di una (invadente) tutela americana dovuta alla cecità degli europei, francesi in testa. E l’Unione Europea che c’entra in tutto questo?
L’Unione Europea, di per se stessa, non ha fatto molto per il mantenimento della pace. A inizio anni Novanta la neonata Unione naufragò nelle guerre jugoslave, spaccandosi ancor prima di unirsi, giocando alle potenze come nell’Ottocento, così che la Francia e l’Inghilterra, per limitare l’espansione di una Germania appena riunificata, appoggiarono un criminale come Milosevic banchettando con lui sul cadavere di Bosnia. Ebbe inizio lì, forse, la “balcanizzazione” che sembra vivere oggi il vecchio continente.
Oggi è la crisi ucraina a mostrare l’incapacità dell’Unione Europea nel mantenere la pace in Europa. Anzi, lo sciagurato appoggio a priori offerto ai leader dell’opposizione Yatseniuk, Klitshko e il neofascista Tjahnybok, senza tentare un concreto processo di mediazione con l’allora presidente Yanukovich, né considerare gli aspetti anti-democratici della formazione guidata da Tjahnybok, ha favorito l’inasprirsi di una contesa politica che, da piazza Indipendenza, è presto arrivata in Crimea e nel Donbass dando luogo a una guerra combattuta – seppur per interposta persona – dalla Russia, aprendo così uno scenario geopolitico estremamente pericoloso per la “pace” anche nei paesi limitrofi che hanno, infatti, cominciato a riarmarsi.
Non è l’Unione Europea ad avere garantito la pace in Europa ma è stato il tallone di ferro dell’Alleanza Atlantica. E lo ha fatto perché l’Europa glielo ha fatto fare. E questa “pace” altro non è che una forma di controllo e sottomissione dell’Europa a un “mastino” che, affossando la CED, abbiamo fatto entrare in casa. La pace del mastino, però, è guerra nei confronti di chi sta fuori da casa: fu la NATO a bombardare Belgrado, è bene ricordarlo, senza che l’ONU le avesse dato mandato. Le istituzioni europee vanno viste nel loro complesso e in prospettiva storica. E’ sbagliato accusare l’UE di colpe non sue, facendone il capro espiatorio dell’incapacità dei politici nazionali, ma è anche sbagliato costruire intorno all’UE una retorica buonista e pacifista.
Si è detto all’inizio che quello della pace – bene supremo – è argomento che serve a far digerire misure economiche nocive, impoverimento, macello sociale. Ma se non fu l’Unione Europea a mantenere la pace nel continente, allora non dobbiamo nulla a questo organismo e – per estremo – non è affatto vero che senza l’UE ci sarebbe la guerra in Europa poiché la pace, abbiamo visto, è garantita dalla NATO. Se l’UE è in cerca di legittimazione, è bene che lo faccia attraverso concrete azioni economiche e politiche destinate a garantire lavoro e dignità, oltre che democrazia, al continente, piuttosto che insistendo con retoriche false che, orwellianamente, diventano vere se infilate a forza nelle nostre coscienze.
“Parlare di Europa si deve”, certo. E Belgrado è, fino a prova contraria, in Europa, e lo è anche Kiev. Parlare di Europa è cosa che su queste colonne cerchiamo di fare mettendo in luce anche le contraddizioni senza per questo unirci al coro dei detrattori. L’acqua sporca va gettata ma il bambino va salvato. Non confondiamo dunque la storia del nostro continente con le narrazioni dell’UE. L’Unione Europea è oggi a un bivio e, nel bene, potrebbe essere la piena realizzazione dell’idea di Europa ma, nel male, ne diventerebbe un cancro o, peggio, un simbionte che, per poterlo uccidere, si dovrà uccidere l’Europa stessa. Occorre dunque stare all’erta se si vuole indirizzare il percorso di integrazione europea verso il giusto cammino.
Gentile dott Zola, ho sempre letto con molto piacere East Journal e l’originalità dei contenuti di fronte all’appiattimento dell’informazione italiana. Tuttavia, anche leggendo il suo articolo sulla primazia dell’inglese in Europa, ho avuto la sensazione che a lei e alla sua rivista non interessi più fare informazione (nel significato più stretto della parola) ma utilizzare questo spazio per esprimere sue considerazioni personali di cui francamente potremmo anche fare a meno. Pur non avendo le conoscenze per scendere nel merito dei contenuti, vorrei comunque sottolineare due grosse imprecisioni. La prima riguarda l’abbandono della Ced: una colpa che non può essere solo addebitata alla sola Francia, ma parzialmente anche all’Italia anche se sostenitrice dell’idea. La questione di Trieste non può essere considerata secondaria. La seconda riguarda l’Ucraina, quando lei dice che non si è tentato un concreto processo di mediazione con Yanukovich. Questo è falso perché fino alla metà di febbraio la diplomazia europea (in realtà Francia, Polonia e Germania) ha cercato il compromesso ed era riuscita a far raggiungere un accordo tra Yanukovich e le opposizioni. La fuga del presidente a Kharkiv e i rivolgimenti del parlamento hanno fatto il resto. Poi di promozione della pace se ne può parlare quanto ne vuole, anche se le ricordo che la Nato è composta da 22 paesi Ue e che il trattato di Lisbona che lei cita ha notevolmente aumentato i compiti civili e militari (così come indirettamente il peso decisionale dei paesi Ue nella Nato). Mi scusi per questo intervento, ma da cittadino che cerca un’informazione onesta e obiettiva questo non mi piace. E credo che per un giornalista appassionato come lei perdere un lettore possa essere solo una sconfitta.
Caro Giovanni
la ringrazio per l’apprezzamento generale. Risponderò con altrettanta franchezza al suo commento. Esprimere considerazioni personali, specialmente se non mascherate da fatti oggettivi ma squisitamente soggettive, mi pare onesto. Non mi pare invece onesto far passare per oggettività cose che tali non sono, infilando considerazioni personali in mezzo ad articoli in cui si espongono fatti, come generalmente fa la stampa italiana. Rifiuto quindi, con fermezza, l’accusa di non essere onesto.
Vengo ora all’altro aspetto della sua critica, ovvero se “se ne senta il bisogno”. Non scrivo per i bisogni suoi, miei, o altrui. Scrivo ciò che ritengo importante, se non lo è per lei, ha facoltà di leggere altrove qualcosa di più affine ai suoi bisogni. Quello che cerco di fare, con i pezzi di opinione che scrivo (circa una volta alla settimana), è sollevare questioni su cui mi piacerebbe si ragionasse. Possono essere questioni intelligenti o stupide, non discuto, posso dire anche io emerite stupidaggini e non penso di essere esente dall’errore. Ma se scrivo di un argomento è perché lo ritengo importante per i lettori (oppure, lo ammetto, perché mi diverte scriverne e penso possa divertire anche chi legge). Molto spesso sono opinioni polemiche, volutamente. E le pubblico nella mia rubrica, che ho chiamato “j’accuse” per giocare con il mio cognome ma che, visto l’improbabile paragone con il mio omonimo, vuole anche avere un effetto iperbolico e ludico.
Sottolineo che in ogni giornale esiste una rubrica del direttore, che indegnamente qui sono io. E quindi mi prendo la libertà di farla fuori dal vaso, nella mia rubrica. Non difendo quindi me stesso né quello che scrivo, ma nei quotidiani l’opinione del direttore esce tutti i giorni: su Ej solo una volta alla settimana, una sofferenza sostenibile orsù.
E così arrivo all’altro aspetto della sua critica che non condivido. Lei dice che “non facciamo più informazione”. Su 15-20 articoli alla settimana uno solo, il mio, è di opinione. Non legga solo i miei articoli, che evidentemente essendo polemici attirano di più l’attenzione, ma quelli di tutti (tutti quelli che le interessano) e dimentichi me, se non le piacciono i miei. Ci sono più di trenta collaboratori in questo giornale, e fanno informazione, cultura persino, a un livello che sfido a trovarlo nei quotidiani nazionali. Attualmente in homepage conto 23 articoli e solo due (a mia firma) sono di opinione. Non legga solo me! Lei non è d’accordo con le mie opinioni? benissimo, lo scriva (se vuole) e ne parleremo da gentiluomini. Ma non mi dica che non sono onesto, poiché non è vero. E non dica che non facciamo informazione quando, di 23 articoli attualmente in homepage, solo due (miei) sono di opinione.
Infine, lo dico con simpatia, non pensi che perdere un lettore, o cento, o mille, sia una mia preoccupazione. Non avendo nessun ritorno economico dall’attività di East Journal, non temo di perdere lettori. L’unica cosa che temo è di non fare il mio lavoro con onestà. Dire quel che penso apertamente, mi sembra onesto.
Grazie per il suo commento, a rileggerci
Matteo
ps: se è di Torino, sabato venga a trovarci alla nostra festa di compleanno. Così ci conosce (quasi) tutti. E beviamo un bicchiere in compagnia.