Il 27 maggio del 1993, presentando l’“Estate al Kamerni 55”, Oslobođenje titolò un articolo con “Tutte le strade portano a teatro”: in pieno il conflitto il teatro e le arti performative stavano riscuotendo a Sarajevo tanto successo e partecipazione del pubblico da presentarsi come capofila indiscussi della resistenza culturale.
Il teatro nella città assediata si svolse in condizioni di decoro minimali, con quello che era rimasto nei magazzini teatrali o con oggetti scenografici reperiti in strada o nelle case. Per l’assenza di elettricità recitare al lume di candela era divenuto normale e quando la fornitura elettrica tornava all’opera, sia pubblico che compagnie ne risultavano a tratti infastiditi.
Nonostante l’energia non mancasse, l’attore Izudin Bajrović ricorda “Sembravamo scheletri, ma siccome lo eravamo tutti, nessuno ci dava importanza. Rivedere oggi le foto di quel periodo, fa una certa impressione, eravamo terribili”.
La partecipazione del pubblico fu doppia rispetto a quella dei periodi antecedenti, riempiendo tutti i teatri cittadini, da quello Nazionale al Kamerni 55, dal SARTR a quello dei Giovani, teatri che videro, anche dopo il tiro delle granate, una presenza entusiasta dei sarajevesi.
Immagini indelebili nella memoria cittadina sono ancora oggi le numerose riproposizioni di Sklonište [Rifugio, Ndt] inscenato dopo il grande successo perfino a Brighton, il musical Kosa [Hair,NdT] e Zid [Il muro, Ndt], metafora della città distrutta e condannata-. “Alla première di “Zid”,” ha affermato l’attore Rjad Ljutović, “abbiamo dovuto mettere in scena due spettacoli nello stesso giorno, première e replica. Questo spettacolo, della regia di Dino Mustafić, ha provocato una tale reazione emotiva tra gli astanti che molti piangevano ed erano profondamente scossi dallo scenario. Sicuramente in molti si sono identificati nella storia di Sartre, dove le persone sono chiuse in uno spazio dal quale non possono uscire, proprio come non era permesso alla gente di Sarajevo. E’ chiaro che il pubblico ha vissuto una vera e propria catarsi e molti venivano da noi commossi o con i volti rossi di pianto”.
E inoltre Svileni bubnjevi [La batteria di seta, Ndt] U zemliji posljednje stvari [Nella terra delle ultime cose, Ndt ], il celebre Čekajući Godoa [Aspettando Godot, Ndt] di Beckett -curato da Susan Sontag- e tanti altri.
In sostanza, secondo Bajrović “Nell’assedio la vita stessa era diventata un teatro, un tragico teatro; allo stesso tempo il teatro era divenuto vita, rendendo inscindibili i due aspetti e donando in ultima istanza al teatro una sua dimensione rituale il cui significato, in altri tempi, sarebbe stato sicuramente diverso”.
“Il bosniaco, un teatro di cuore” di Haris Pašović (Tratto da Oslobođenje, 27 marzo 1993), Traduzioni: Giovanna Larcinese
Oggi è la Giornata Internazionale del Teatro. Ovunque stasera, nei palcoscenici mondiali, su invito dell’Istituto Internazionale di Teatro, si leggerà il messaggio di una delle personalità mondiali del teatro. E mentre scrivo queste righe, a noi sarajevesi non è ancora arrivato questo messaggio. Per caso quell’unità mondiale teatrale ha dimenticato che in Bosnia Erzegovina non si è ancora spenta la vita? Lì dove c’è vita, c’è anche il teatro. E’ possibile che ai nostri colleghi non sia arrivata la notizia che a Sarajevo, Zenica, Mostar e Tuzla si portano avanti spettacoli e premiére nel bel mezzo di una brutale aggressione alla nostra terra? Forse anche noi ci impegniamo poco a mandare il chiaro segnale che in Bosnia ci sono, e ci saranno, vita e teatro. No, non mi morderò l’anima, forse questo messaggio arriverà.
Resta però un sapore amaro nel pensare che l’idea contemporanea di teatro, specialmente in Europa, sia oggi un piacere per persone felici e benestanti, per le quali è meglio non disturbarsi con quell’annoso problema che è la Bosnia Erzegovina. E’ più facile nascondersi nel postmodernismo invece che chiedersi apertamente: che faremo del fascismo in Europa?
Non troppo tempo fa, solo all’inizio della tournèe che le assegnerà i plausi mondiali, il Living Teatre è stato recitato a Zenica e poco dopo a Sarajevo. Erano i tempi della guerra in Vietnam, e quei giovani americani concludevano il proprio spettacolo “Carcere” sdraiandosi all’ uscita delle sale teatrali. Chi voleva uscire da teatro, area di libertà e amabili incontri (e paradossalmente lo spettacolo si chiamava proprio “Carcere”) doveva passare tra gli attori sdraiati. In quel momento diventavamo tutti attori e spettatori di quella terribile tragedia.
Da quando, in queste tragiche realtà, attori e pubblico hanno ancora bisogno di teatro? Cos’è, e anche con più attrazione, che fa amare ancora il teatro? La cosa mi soprende in maniera sempre più sfuggente, imprevedibile e indescrivibile. Ho il sospetto che qui da noi, al centro del mondo, si lavori ad un nuovo teatro, il teatro del ventunesimo secolo. In questo teatro del futuro scompare l’idea tecnocratica dalla quale si è divisa l’arte del ventesimo secolo, il teatro ancora una volta si riempie di significati, sensibilmente parlano le emozioni soppresse, si sgonfiano le ridicole bugie. Qui il futuro è già iniziato e si sa già che il ventunesimo secolo è più simile al Medioevo che alla visione tecnologica dei romanzi fantascientifici.
In passato pensavo che fosse possibile fare teatro solo dalla gioia, e che solo da percorsi felici si potessero raggiungere silenzi sacri nel cuore di spettacoli instintivi. Ora invece si palesa una nuova realtà di teatro, secondo cui quello stesso silenzio mostra una semplice serietà. E’ questo il teatro serio, anche nel mezzo delle risate. Con questo teatro del sorriso si guarisce, ci si riscalda coi battiti, come direbbe anche l’attore Mravac Bosanac.
In questo teatro ci scambiamo le solitudini e piangiamo le tristezze. E ci stupiamo gli uni degli altri. Incontrandoci in un mondo migliore questo teatro parlerebbe di menzogne.
In un tempo in cui ci hanno intorpiditi il tradimento e il disonore, esso ci ricorda che non vogliamo essere intorpiditi fino alla morte. Oggi, nella Giornata Internazionale del Teatro, ha davvero senso usare l’espressione “pedane che sanno di vita”. E quindi ordiniamo pedane, ovviamente se sono asciutte. Di nuovo è caduta la neve, e ancor prima di noi battiti, calore e sorrisi.