Lo scorso 16 ottobre, a Belgrado, una parata militare celebrava il settantesimo anniversario della liberazione della capitale serba dall’occupazione nazista (ne abbiamo parlato qui). L’ospite d’onore? Vladimir Putin. Il presidente russo si è recato in Serbia per partecipare ai festeggiamenti, certo, ma anche “testare” il legame tra i due paesi. È stata quindi l’occasione per riaffermare che non riconoscerà l’indipendenza del Kosovo e per ottenere rassicurazioni, da parte del presidente Tomislav Nikolić, che la Serbia si opporrà alle sanzioni decise dall’Unione Europea. È stato anche un momento per tornare a occuparsi di un altro tema delicato: il progetto del gasdotto South Stream. Al pari del suo “fratello maggiore” Nord Stream – che trasporta il gas russo direttamente in Europa attraverso il mar Baltico – South Stream dovrebbe creare un nuovo corridoio energetico passando, però, per il mar Nero e i Balcani. Due progetti paralleli con un minimo comun denominatore, quello di bypassare il territorio ucraino. L’italiana Eni e il colosso energetico russo Gazprom firmarono un primo protocollo d’intesa nel 2007. Altre grandi compagnie europee, come la francese EDF-Suez e la tedesca Wintershall, si sono in seguito unite al progetto del gasdotto. Che potrebbe, però, incepparsi definitivamente sotto la pressione dell’Unione Europea.
Secondo quanto previsto dal “Terzo Pacchetto Energia”, in effetti, le compagnie d’estrazione di gas naturali non possono gestirne anche la distribuzione, poiché ciò comporterebbe una violazione delle norme UE in materia di concorrenza nel settore energetico. Niente da fare, dunque, se Gazprom non consentirà l’accesso al South Stream anche ad altri fornitori: una condizione che il gigante russo non sembra incline ad accettare. Così, proprio in virtù di quanto previsto dalla normativa europea, il governo bulgaro ha bloccato il progetto lo scorso giugno. Vladimir Chizhov, ambasciatore russo presso l’UE, sospetta invece che si tratti di una decisione politica, da interpretare nel quadro, più ampio, delle sanzioni europee contro la Russia. A qualche mese di distanza, intanto, la storia si ripete con la Serbia, paese candidato all’adesione all’UE. Con una differenza: il governo serbo sembra – o almeno sembrava – certamente meno intenzionato ad accettare la linea di Bruxelles.
Ostaggio delle sue aspirazioni europee e degli interessi economici che la legano alla Russia, la Serbia aveva lasciato intendere d’aver scelto questi ultimi: difficile, in effetti, resistere a un investimento complessivo di circa due miliardi e mezzo di dollari e alla garanzia, come ha spiegato lo stesso Putin, di una maggiore sicurezza sul piano dell’approvvigionamento energetico. Nonostante le reciproche assicurazioni di metà ottobre, però, il governo serbo sembra ora aver fatto retromarcia: il primo ministro Aleksandar Vučić ha dichiarato a Business New Europe che la Serbia procederà alla costruzione di South Stream solo con il consenso dell’UE. E, con una mossa che ha tutto il sapore della ritorsione, la Russia ha ridotto le forniture di gas alla Serbia del 28%, a fronte di un debito che supera i 200 milioni di dollari. L’allarme sembra rientrato, almeno secondo alcune fonti del governo serbo, in seguito ad un colloquio telefonico tra Putin e Vučić e a un accordo sulla rateizzazione dell’attuale debito: nessun trattamento di favore, insomma, aldilà di qualsiasi retorica o atto simbolico, come l’acquisto della Stella Rossa da parte di Gazprom.
Il progetto South Stream vive oggi le sue ore più delicate: i paesi europei sembrano cercare strade alternative alla dipendenza dal gas russo e Gazprom, dal canto suo, non sembra intenzionata a cedere alla pressione dell’UE. Tutto fermo, insomma? Così parrebbe, anche se alcune fonti, come il sito web EurActiv, riportano che a Varna continuano ad arrivare materiali per la costruzione del gasdotto. In Ungheria, inoltre, il governo ha approvato un emendamento che permetterebbe di aggirare il divieto imposto dall’UE. Secondo quanto previsto dall’emendamento, in effetti, Gazprom avrebbe bisogno della sola autorizzazione della Magyar Energia Hivatal, l’agenzia energetica nazionale, per procedere alla costruzione in suolo ungherese. La situazione non è chiara, come spiega Anna-Kaisa Itkonen, portavoce della Commissione Europea. L’UE resta alla finestra: se la mossa del governo ungherese dovesse andare a buon fine, altri paesi potrebbero seguirne l’esempio.