Per chi, come il sottoscritto, ha avuto il piacere (e il privilegio) di viaggiare in lungo e in largo per il paese, incontrando gente comune e intellettuali, nei villaggi più piccoli e remoti come nella capitale, Teheran – una megalopoli per molti aspetti moderna e all’avanguardia –, l’Iran non è più un monolite.
La questione del velo, l’islam, il nucleare e i diritti umani sfumano allora sullo sfondo, diventano questioni importanti, sì, ma non tanto da mettere in secondo piano quella che è la caratteristica più evidente di questo paese: la sua incredibile varietà umana e culturale.
Lingue, tradizioni, costumi, e persino credi religiosi assai diversi convivono uno accanto all’altro da millenni, contribuendo a fare dell’Iran per certi versi un enigma: com’è possibile che gente così diversa si riconosca in una sola bandiera, nell’idea di un’unica nazione che – pur dopo mille invasioni e metamorfosi – sopravvive dall’epoca antica fino ad oggi? Cosa lega la Persia di Ciro il Grande e l’Iran khomeinista di oggi? E ancora: hanno qualcosa in comune modelli antropologici stridenti, e forse diametralmente opposti, come quelli che incontriamo viaggiando nel paese? Se sì, che cosa?
Eppure, l’Iran esiste e resiste, c’è ed è uno, non solo nell’autorappresentazione dei suoi abitanti, ma anche in aspetti importanti della sua vita odierna. Come la lingua, erede diretta del persiano parlato nell’epoca preislamica, fra le poche lingue sopravvissute o non marginalizzate in Medio Oriente e in Africa settentrionale dall’invasione araba. O la religione, quell’islam sciita oggi dominante in Iran, in cui molti studiosi ravvisano elementi e sopravvivenze del multiforme mondo religioso preislamico.
L’orgoglio nazionalistico è molto diffuso e forte in Iran, anche in settori della società – secondo i nostri canoni almeno – insospettabili. Come in chi non si riconosce nel regime nato in seguito alla formazione della Repubblica Islamica – e sono tanti; o ancora, in molti abitanti dell’Iran che hanno poco o nulla di iraniano da un punto di vista etnico, linguistico o religioso. È il caso ad esempio di molti turchi azeri, la minoranza più numerosa del paese, che non percepiscono come una contraddizione l’orgoglio di essere iraniani e la loro appartenenza a un’etnia diversa, e spesso storicamente in conflitto, rispetto a quella dominante.
Possibile? Sì, a patto che ci si liberi dal pregiudizio che vorrebbe lo stato come un insieme omogeneo di individui di una medesima lingua, stirpe e religione. Quella iraniana sarà allora da intendersi come una sovra-identità, universale e onnicomprensiva, nel più dei casi non in conflitto con le varie identità etniche, linguistiche o religiose ‘particolari’. An Meine Völker (“Ai miei popoli”), titolava uno storico proclama di Francesco Giuseppe, la cui idea – se mi si perdona l’azzardo – potrebbe non essere lontana da quella che fa del ‘turco’ Khamenei l’attuale Guida Suprema della Repubblica islamica dell’Iran.
Certo, esistono pure le eccezioni, a volte dolorose. Ricordo un pomeriggio di qualche anno fa trascorso ad ascoltare il dilemma identitario di un amico, un curdo di Sanandaj. Il punto che sollevava era semplice: che cosa ho in comune io, curdo e sunnita non praticante, con la Repubblica islamica? Perché dovrei restare in Iran, se mi ci sento straniero? Quello stesso ragazzo, che oggi porta a termine il suo dottorato di ricerca in Inghilterra, è poi in effetti espatriato. Difficile biasimarlo.
Sul versante religioso, fra gli esclusi andranno ricordati almeno i baha’i, seguaci di un credo religioso nato nell’Iran del XIX secolo, ma oggi banditi in patria in quanto considerati musulmani apostati. Ma qui il caso è diverso da quello dei curdi, e così molti baha’i, anche se discriminati in patria, si distinguono all’estero per il loro protagonismo economico e culturale all’interno della diaspora iraniana nata dopo la rivoluzione del 1979.
Eccezioni a parte, l’identità iraniana, unica ed universalistica, si articola in concreto in un’infinita serie di ramificazioni, che costituisce senza dubbio il fascino più grande di questo paese. Una ricchezza non casuale, certo, ma che è il frutto di una sedimentazione millenaria: 78 lingue viventi (secondo i dati riportati dal database Ethnologue), un’impagabile varietà di riti, culti e credenze, sopravvissuti alla notte dei tempi ma spesso ancora vivissimi e, soprattutto, un’infinità di tipi umani assai eterogenei: dal pastore nomade all’abitante di un villaggio rurale, dal provinciale tradizionalista fino al cittadino della capitale, poliglotta e cosmopolita.
Un’identità che è una, nessuna e centomila, appunto; figlia di quella pluralità che – diceva il filosofo Herder – è il modo di manifestarsi di Dio nella storia.