Domenica 26 ottobre i tunisini sono chiamati alle urne per il rinnovo del parlamento. Dovranno eleggere i 217 membri dell’unica camera, l’assemblea dei rappresentanti del popolo. Finiscono così i lavori dell’assemblea costituente, insediata all’indomani della “rivoluzione dei gelsomini” del 2011 e della fuga di Ben Ali, che da 24 anni guidava la Tunisia. Per il 23 novembre invece è previsto il primo turno delle presidenziali. Più di 90 partiti, per un totale di circa 1500 liste territoriali, si contendono i seggi e un ruolo nel futuro governo. In realtà si tratta di una corsa a due. Da un lato Ennahdha (Movimento della Rinascita), il partito islamista guidato da Rashid Gannoushi, che tre anni fa aveva raccolto il 40% dei consensi. Dall’altro l’emergente Nidaa Tounis (Appello per la Tunisia), fondato nel 2012 da Beji Caid Essebsi, già ministro sotto il padre della patria Habib Bourguiba fra gli anni ’60 e gli anni ’80. Secondo i sondaggi Nidaa si attesterebbe al 35%, mentre Ennahdha avrebbe dimezzato i suoi consensi e non andrebbe oltre il 20%. Gli altri partiti maggiori, di ispirazione socialista e marxista, si sono coalizzati nel Fronte Popolare ma non arrivano al 10%.
Tre anni di instabilità
Questa corsa a due riflette la spaccatura politica fra islamisti e anti-islamisti nata con le prime elezioni libere nell’ottobre 2011. Ennahdha, il ramo tunisino dei Fratelli Musulmani, ha operato per decenni in clandestinità. In passato ha giustificato l’uso della violenza per conquistare il potere politico. Così dopo la vittoria elettorale di tre anni fa venne additato come un pericolo per la democrazia, nonostante il suo leader Gannoushi avesse esplicitamente rifiutato l’idea di un califfato islamico e promesso di seguire la via delle riforme.
L’esperienza di governo però hanno danneggiato la credibilità di Ennahdha. L’economia non si è risollevata, con la disoccupazione al 15,2% (contro il 12% del 2010) e il PIL in crescita del 2,3%, la metà del valore di prima della rivoluzione. Ma i problemi maggiori riguardano la stabilità interna. Ennahdha ha governato con l’appoggio di due partiti minori e non islamisti, il Congresso per la Repubblica (CPR) e Ettakatol (Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà). Questa alleanza, subito rinominata troika, ha provocato diversi malumori interni, tanto che numerosi deputati del CPR e di Ettakatol hanno abbandonato i loro partiti, portando a un pericoloso stallo politico.
La crisi ha raggiunto il suo apice nel 2013, con l’assassinio di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, esponenti di spicco del Fronte Popolare. I sospetti si sono concentrati sull’area salafita, mentre Ennahdha veniva additata come mandante. Sull’onda delle proteste il governo si è dimesso ed è stato formato un esecutivo di transizione. Questo clima ha spinto due terzi dei tunisini a preferire un governo forte anche se non democratico, come rivela un sondaggio del Pew Research Centre.
La “politica del consenso” e il ritorno del vecchio regime
Nel tentativo di riguadagnare credito, lo slogan di Ennahdha durante la campagna elettorale è “una politica del consenso e del perdono”. I significati sono due: non vogliamo il potere tutto per noi; e dimostreremo coi fatti qual è la nostra natura. Il partito ha annunciato che in caso di vittoria cercherà di formare una coalizione di governo e rinuncerà a presentare un proprio candidato alle presidenziali. Nidaa cerca di proporsi come unica alternativa a Ennahdha. Ma rischia di vanificare i suoi sforzi candidando ex esponenti di spicco del Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD), il partito di Ben Ali ormai disciolto e dichiarato illegale.
Questo è il livello a cui si sta giocando la partita. Dei programmi, in realtà, si discute poco. Ennahdha punta sulle piccole e medie imprese promettendo finanziamenti a tassi agevolati e un maggiore controllo del mercato per venire incontro a chi è più in difficoltà. Nidaa si rivolge soprattutto ai giovani con programmi di formazione e un piano di assunzione per i laureati, oltre a un prestito senza interessi per l’acquisto della prima casa.
Chi ha paura del terrorismo?
Secondo Amna Guellali di Human Rights Watch il grande assente dalla campagna elettorale è la tutela dei diritti umani. È vero che la nuova costituzione approvata a gennaio riconosce la libertà di stampa e di parola, la parità di genere e la centralità della difesa dell’ambiente. Ma secondo Guellali in altri settori i risultati sono scarsi: “Non sono stati debellati torture e abusi perché le forze di sicurezza non sono state riformate in modo esaustivo. L’autorità giudiziaria tunisina non garantisce in modo automatico ai cittadini, diritti e libertà. Il sistema di impunità, utilizzato in precedenza, prevale tuttora”.
Un nodo da affrontare con la discussione della nuova legge anti-terrorismo, in parlamento da agosto. Il provvedimento infatti determinerà in quali circostanze è ammessa una limitazione dei diritti individuali. Va ricordato che lo stato di eccezione in vigore dal 2011 è stato revocato solo a marzo di quest’anno. Restano invece le zone militari speciali al confine con Algeria e Libia. Lo scopo è contrastare al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (AQMI), che a fine maggio ha rivendicato un attentato a Kasserine contro la residenza del ministro dell’Interno Lotfi Ben Jeddou. Ma la paura di perdere voti con la limitazione dei diritti individuali ha fatto slittare l’esame della legge al 28 ottobre, appena dopo le elezioni.
Foto: Freedom House