Una schiavitù proverbiale
Dopo un’espansione che li portò, tra il quinto e l’ottavo secolo, in Asia minore e in Grecia, in Africa settentrionale e sul Baltico, gli slavi subirono la risposta dei franchi, dei tedeschi, dei danesi e dei bizantini che – dopo averne subito il “maremoto” – riguadagnano al loro controllo ampie fette di territori slavizzati e ne assoggettano la popolazione ancora in larghissima parte pagana. In particolare fu notevole l’asservimento degli slavi settentrionali i quali, occupate le pianure di una Germania abbandonata a seguito delle migrazioni verso sud di longobardi, franchi, goti e vandali, videro il rapido riorganizzarsi dei gruppi rimasti in entità statali via via più organizzate. Bavari, sassoni e poi franchi, fino ai cavalieri teutonici, per circa due secoli gli slavi subirono la “riconquista” germanica. Tale “riconquista” fu così violenta che il poeta ceco Jan Kollar, nel XVIII° secolo, chiamò la Germania “cimitero degli slavi”.
La schiavitù degli slavi divenne proverbiale e diede origine, in pressoché tutte le lingue europee, al termine “schiavo”. Il vocabolo latino “sclavus” (schiavo, appunto) fece la sua comparsa nel XIII° secolo sostituendo il termine classico “mancipium” (da cui “emancipare”, uscire da stato di asservimento). Allo stesso tempo, nel greco bizantino, compare il termine “sklavos” per dire “servo, schiavo”. I due termini derivano da “slavo” (e non viceversa) poiché all’epoca gli slavi erano “schiavi per eccellenza”. Fu così che il nome di un popolo divenne un termine estensivo per una categoria di persone, tanto che oggi lo ritroviamo nell’italiano, nel francese (esclave), nel catalano (scrau), nel tedesco (sklave), nell’olandese (slaaf) e nell’inglese (calco perfetto, slave).
Durante l’alto Medioevo carovane di slavi percorrevano l’Europa da una piazza all’altra, Venezia, Ratisbona, Lione erano i principali mercati per questa particolare “merce”. A Verdun si trovava il più importante mercato di eunuchi del continente. La riduzione in schiavitù delle genti slave fu moralmente possibile, ed anzi caldeggiata, proprio in virtù del loro paganesimo. Il Concilio di Meaux, nell’845, stabilì il divieto di vendere “merce” cristiana ma non riteneva che si dovessero avere particolari cure per i non battezzati. Non bastò a proteggerli la conversione al cristianesimo, poiché a sostituire i tedeschi furono i tataro-mongoli, che ne fecero razzia in Russia, e i mercanti musulmani durante il dominio ottomano sui Balcani: la schiavitù degli slavi di Bosnia ed Erzegovina è descritta nel Viaggio d’Oltremare del siniscalco di Filippo il Buono, nel 1432. Gli slavi, per l’Europa tedesca e il papato germanizzato, furono per larga parte del Medioevo considerati qualcosa “d’altro” rispetto all’Europa. Il mito dell’alterità slava, della loro irriducibile diversità dal corpo latino-germanico, è durata dal Medioevo fino al Novecento: nei piani dei nazisti non c’era infatti anche l’eliminazione e l’asservimento degli slavi di Polonia?
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, con il diffondersi delle terribili teorie razziste, gli storici tedeschi giunsero ad affermare che gli slavi non fossero nemmeno indoeuropei (o “indogermanici”, come dicevano loro). Una falsità che derivava dal pregiudizio radicato nella storia tedesca, una storia che si è violentemente incrociata con quella degli slavi. Il pregiudizio era tale che il filologo tedesco J. Peisker, nel 1905, sostenne che gli slavi fossero stati schiavi fin dall’antichità: tesi – palesemente infondata – che faceva comodo a uno stato con ambizioni egemoniche verso est, e che occupava antiche terre slave. Tesi che sarebbe poi stata portata all’estremo dai nazisti che elaborarono, nel 1940, il Generalplan Ost che prevedeva l’eliminazione fisica e la deportazione di polacchi e cechi. L’assunto nazista era semplice: se sono schiavi da sempre, come sosteneva Peisker, è perché tale è la loro natura. Quindi perché non assecondarla? Ad Auschwitz sono molti i nomi di cittadini polacchi, non ebrei né oppositori politici, presenti negli elenchi degli internati. La loro colpa? Essere slavi e non essere abbastanza biondi.
La teoria panslavista
Abbiamo dunque visto come il nome di un popolo sia andato a designare una particolare categoria sociale, quasi a segnarne un destino. Ma cosa significa davvero “slavo”‘, da dove ha origine? L’etimologia è incerta. Nel XVIII e XIX secolo prese piede una teoria che intendeva “emancipare” la parola “slavo”: secondo alcuni letterati russi, in piena temperie panslavista, l’etnonimo “slavo” deriverebbe dal sostantivo “slava”, ovvero “gloria” e “fama”. Un termine comune a molte lingue slave moderne che attesterebbe la grandezza originale degli slavi. Era quella una chiave di lettura ispirata dal nazionalismo e presto i linguisti ne dimostrarono l’infondatezza.
La teoria celebrativa
Quello che però è certo è che la radice “slav” deriva dall’indoeuropeo “klou / klau” (Villar) con il significato di “sentire“. In greco la radice “klou / klau” ha dato luogo alle nozioni di “sentire” e “ascoltare”, e chi è ascoltato ha fama. Esito simile a quello del latino “inclitus” (avere fama). Che quindi gli slavi fossero quelli che “avevano fama” è una ipotesi suggestiva e che ben risponde all’abitudine tipica dei popoli antichi di nominarsi in senso auto-celebrativo. A sostegno di questa tesi ci sarebbe l’analogia con il nome di un altro gruppo etnico dell’antichità, i Venedi, collocati da Plinio il Vecchio e da Tacito sulle sponde della “Vistla”, l’odierna Vistola. Un popolo che Tolomeo definì “di grandi dimensioni” ed “esteso sul golfo venedico”, cioè il Baltico.
Secondo alcuni storici la presenza dei Venedi lungo la Vistola proprio nel periodo in cui gli slavi erano emigrati in quelle terre, deporrebbe a favore del fatto che i Venedi fossero slavi. La radice del nome dei Venedi è l’unica cosa certa: deriva dalla radice indoeuropeaa “wen”, con il significato di “amare”. Quindi “wenetoi” sarebbero “gli amati” o forse “gli amabili”, nel senso di amichevoli (stessa radice del popolo dei Veneti dell’Adriatico occidentale, italici; dei Veneti celti descritti da Giulio Cesare; dei Veneti illirici della Dalmazia; della tribù laziale dei Venetulanos). E’ questa un’altra nominazione autocelebrativa in cui taluni vedono un elemento a suffragio della teoria autocelebrativa del nome “slavo”, poiché slavi sarebbero appunto i Veneti.
La teoria dell’unità linguistica
Due etimologie interessanti cominciarono a prendere piede nel secondo dopoguerra, facendo leva sui rinnovati studi di paleolinguistica e linguistica comparativa. Secondo la prima “slavo” andrebbe accostato a “slovo”, cioè “parola”. Gli slavi sarebbero quindi “coloro che parlano con le stesse parole” in contrapposizione a “nemcy”, i “muti” (è significativo che quell’appellativo, conservatosi nella lingua polacca, si riferisca oggi ai soli tedeschi). La connessione tra “slavo” e “slovo” è quasi automatica e sappiamo che molte tribù slave del Medioevo non distinsero mai i due termini. E’ questa la teoria più accreditata e diffusa.
La teoria geografica
Suggestiva è poi la teoria geografica. Grazie all’archeologia sappiamo che le genti slave, prima della grande migrazione verso il cuore dell’Europa, che differenzierà i vari popoli, vivevano in uno “spazio comune” situato nel bacino paludoso del Pripjat, tra i fiumi Dnepr e Dnestr. Secondo alcuni studiosi il termine “slavo” indicherebbe proprio quello spazio originario acquitrinoso, derivando dall’indoeuropeo “skloak” (che in latino ha dato origine a “cloaca” che significa “canale di scolo” o “acquitrino”). Insomma, il classico trasferimento del nome del luogo al popolo che vi abita, cosa per altro comune tra le genti slave: la tribù dei Vislani, che viveva lungo il fiume Vistola (oggi Wisla in polacco); quella dei Pomerani, che viveva po (a ridosso) more (del mare); quelli che vivevano nelle pole (pianure), cioè i polani / polacchi. Secondo questa teoria gli slavi sarebbero dunque “il popolo che vive negli acquitrini”, in quella regione originaria da cui sono poi migrati per segnare per sempre la storia d’Europa.
I veneti del Veneto sarebbero italici per quale motivo? Le teorie che vogliono accomunare i veneti agli italici non sono molto credibili e contestate nel mondo accademico europeo.
Gent. Eugenio
il dibattito linguistico è aperto. E ormai la questione attiene solo più alla linguistica in quanto l’archeologia ha già fatto il suo dovere, individuando nei Veneti che risiedevano nell’attuale Veneto italiano una cultura autonoma e originale rispetto a quelle vicine. I linguisti, in base ai pochissimi reperti linguistici rimasti, hanno individuato l’appartenenza dei Veneti in questione alla grande famiglia indoeuropea.
Nel secondo dopoguerra, con lo sviluppo della linguistica comparativa e dell’archeolinguistica, si sono affermate due teorie: la prima, anche in ordine di tempo, legava la lingua venetica alle lingue osco-umbre (italiche). Poi si è ritenuto che il venetico fosse parte della famiglia latino-falisca (italica). Francisco Villar, il cui testo è tra quelli consultati per questa rubrica, nel suo libro “Gli indoeuropei e le origini dell’Europa” sostiene le tesi della scuola osco-umbra. Segno che anche oggi non c’è accordo tra gli esperti ma che l’appartenenza al gruppo delle lingue italiche non è messa in discussione.
Sempre se si intende come lingua italica qualsiasi lingua anticamente parlata solo nella penisola italiana indipendentemente dall’origine. Se invece intendiamo come italiche solo le lingue ritenute completamente autoctone, allora la questione cambia un po’ ma non sono in grado di specificarla meglio poiché i miei studi non me lo consentono. Le ho scritto questo per spiegare perché ho definito “italici” i Veneti che vissero nell’attuale Veneto italiano, che mi sembrava essere la sua critica.
Cordiali saluti
Matteo
Dove si menziona la schiavitù degli slavi di Bosnia nel “Viaggio d’Oltremare”?
Le volte che ho chiesto la derivazione etimologica di slavo (in realtà in lingua si dice slaviano oppure slavico, non esiste la parola slavo) mi si rispondeva semplicemente che in generale derivava da “coloro che parlano ed usano la parola”, slovo, a differenza di coloro che non lo fanno, di cui il gruppo maggiore e più a contatto a ovest erano i tedeschi, che in tutte le lingue slave si dicono niemzy (che vuol dire muti, cioè non usano la parola, parlano diversamente)