di Matteo Zola
A Tirana il giorno dopo sembra tutto normale. Una calma apparente. Gli scontri di venerdì hanno lasciato sul terreno tre morti, un ferito in coma cerebrale e decine di feriti lievi. I due contendenti, Sali Berisha, attuale primo ministro, ed Edi Rama, leader dell’opposizione e amatissimo sindaco di Tirana, continuano a scambiarsi accuse di corruzione e legami con il crimine organizzato.
Berisha ha difeso l’operato delle forze dell’ordine e della Guardia della Repubblica che di norma presidia la sede del governo, sottolineando di aver fatto solo il loro dovere in base al regolamento previsto per situazioni simili. Le vittime, secondo quanto affermato da Berisha, sarebbero state colpite da vicino con armi leggere diverse da quelle in dotazione alla Polizia di Stato e della Guardia della Repubblica.
Edi Rama ha annunciato nuove manifestazioni per i prossimi giorni, e punta il dito contro Berisha. “Basta guardare il video -dice Rama- si vede chiaramente chi spara e contro chi”. Le immagini sono state realizzate da un cameraman dell’emittente albanese News24, che le ha trasmesse nel corso della notte di venerdì, e mostrano un militare in ginocchio al riparo di una nicchia dentro il giardino del governo, poi si vede la fiammata dello sparo e contemporaneamente un dimostrante stramazzare al suolo. Il video, acquisito dalla procura di Tirana, sembra smentire le dichiarazioni del premier Berisha, che ieri sera aveva accusato l’opposizione socialista, guidata dal sindaco di Tirana, Edi Rama, di aver provocato essa stessa la morte dei propri dimostranti “colpiti con armi che non sono in dotazione alle nostre forze dell’ordine”.
Quella albanese non sembra però, come molti media affermano, una rivolta “alla tunisina” poiché diverso è il contesto in cui si verifica. In Tunisia le proteste, poi “legittimate” dall’intervento dell’esercito, erano generali e hanno portato a un golpe con il quale s’intendeva “cambiare tutto affinché nulla cambiasse”, proponendo un nuovo leader in grado di assicurare all’Occidente il controllo dell’immigrazione, del fondamentalismo islamico e la prosperità degli affari che Ben Alì -ormai vecchio- non era più in grado di garantire. In Albania si tratta di una manifestazione dell’opposizione finita nel sangue, e sembra al momento un problema tutto interno al Paese delle aquile, senza ingerenze esterne. L’unico Paese che potrebbe avere qualcosa da dire, visti i fortissimi interessi economici in Albania e gli stretti legami con Berisha, ancora tace: è l’Italia. La politica estera di Roma verso Tirana è però la stessa che c’è con Tripoli o con Mosca: una politica estera informale e personalistica, gestita direttamente dal presidente del consiglio. Le relazioni diplomatiche tra Italia e Albania rischiano dunque di essere solo quelle tra Berlusconi e Berisha. E’ comunque lecito attendersi che il governo italiano riferisca in Parlamento su quanto sta avvenendo al di là dell’Adriatico.
Il rischio di una guerra civile, in Albania, non è remoto (gli albanesi hanno dato prova, già nel 1997, di saper imbracciare le armi) ma non sembra al momento l’ipotesi più plausibile. L’Unione Europea si dice però allarmata. Certo, in tutti i Balcani occidentali, è in corso una progressiva “democatizzazione” promossa proprio da Bruxelles: in Croazia, Serbia, Montenegro, Kosovo si sta assistendo a un cambio della guardia. L’arresto di Sanader, l’adesione all’Ue di Belgrado, le dimissioni di Djukanovic, le accuse contro Tachi, sono segnali di un cambiamento. Potrebbe forse trattarsi di un effetto domino. Quel che appare evidente è come in Albania il tempo di Berisha sia finito, ma il vecchio tiranno -che ha già saputo risorgere dalle proprie ceneri- potrebbe essere duro a morire.