Con il 55% dei voti contrari e il 45% a favore, gli scozzesi hanno bocciato la proposta di indipendenza del loro paese. La contea in cui i no hanno ottenuto più consensi è stata quella delle Orcadi con 67,20%, mentre quella più indipendentista è stata quella di Dundee con il 57,35%.
L’affluenza alle urne è stata del 85% con punte del 91%, numeri che testimoniano l’enorme partecipazione al voto. Il futuro della Scozia è stato davvero nelle mani degli scozzesi. Gli argomenti degli unionisti hanno persuaso i cittadini scozzesi a restare nel Regno Unito, argomenti non sempre espressi con fair play: non sono infatti mancate le blandizie o le intimidazioni, e il senso di essere oggetto di “bullismo” da parte di Westminster ha accresciuto il consenso verso l’indipendenza nelle ultime settimane prima del voto. A Londra hanno quindi cambiato strategia promettendo una maggiore autonomia per la Scozia nel caso avesse votato contro l’indipendenza.
A urne chiuse, il premier britannico Cameron ha tenuto un discorso che ribadisce le promesse fatte: “costruiremo un nuovo futuro per il nostro paese. Abbiamo ora l’opportunità di cambiare il modo in cui la Gran Bretagna è governata, e di cambiarlo in meglio. Sono felice che Alex Salmond abbia dato la sua disponibilità a discutere insieme il nuovo assetto del nostro paese”.
Ma cosa si intende per “nuovo assetto?‘ Cameron si è impegnato a realizzare una nuova e più spinta devolution (ovvero il trasferimento dei poteri dall’autorità centrale a quelle locali) che dia maggiori poteri ai parlamenti locali di Scozia, Galles e Nord Irlanda. Ma la vera novità sarebbe la creazione di un parlamento inglese, separato da Westminster che resterà il parlamento comune di un paese pienamente federale. Non va infatti dimenticato che esistono spinte autonomiste e persino indipendentiste (il 33% secondo un sondaggio del 2014) anche in Inghilterra. Per il Regno Unito, che non ha una costituzione scritta, si tratterebbe di darsi una carta e mettere nero su bianco un assetto politico che spazzerebbe via trecento anni di consuetudini.
La questione – ampiamente discussa negli ambienti conservatori e rimbalzata con prepotenza nei media – resta aperta ma il dado è tratto. Ecco che il referendum scozzese ha dato a tutto il paese l’opportunità per ripensarsi. E il paese ha molto cui pensare in termini di convivenza sociale. Gli inglesi dovranno riflettere sul loro ruolo eccessivamente dominante sulle altre “nazioni costitutive”. Un dominio che ha di fatto creato spinte secessioniste come quella scozzese. Non solo: esiste una netta differenza politica tra queste aree. La Scozia, laburista e socialdemocratica, dove i conservatori (che governano il Regno) non prendono mai più di un seggio. L’Inghilterra, conservatrice e liberale, che crede nella privatizzazione e nella liberalizzazione del mercato. Sono differenze che vanno prese in considerazione perché tradiscono due modi differenti di vedere la società.
E la società inglese ha oggi un altro elemento su cui ragionare. La vittoria dell’UKIP, partito antieuropeista e xenofobo, alle recenti elezioni europee, è stata in gran parte dovuta al voto inglese. Le politiche nei confronti dell’immigrazione proposte dall’UKIP e quelle promosse dal governo Cameron, erano uno degli elementi criticati dai nazionalisti scozzesi che rivendicavano la necessità di una società “aperta e plurale”.
Nel 2017 si terrà infine un altro referendum storico, quello sulla permanenza del Regno nell’Unione Europea. Una permanenza che oggi è malvista dagli inglesi ma che piace a scozzesi e nordirlandesi. Sarà quella una nuova occasione di divisione?
Il Regno Unito – che esce adesso da una crisi economica che ne ha minato alle fondamenta la coesione sociale e i valori politici – ha molto su cui riflettere. A dimostrazione che l’esercizio della democrazia è sempre salutare, il referendum scozzese ha dato l’opportunità di aprire una lunga e profonda riflessione sul presente e sul futuro del paese. Un’opportunità che speriamo non venga perduta.