di Matteo Zola
Forse qualcuno ricorderà l’elezione, nello scorso ottobre, di Peter Brossman a sindaco di Pirano, l’incantevole località turistica e unico porto industriale della Slovenia dal minuscolo litorale. Con uno sforzo di memoria, potrà tornare alla mente che Brossman è originario del Ghana e la sua elezione rappresenta la prima volta di un politico non bianco. “La mia vittoria mostra il livello di democrazia in Slovenia” disse Brossman dopo le elezioni.
I venti contrari alla democrazia, che nell’Europa intera e in quella orientale specialmente, soffiano con sempre maggiore intensità, cominciano però a tirare qualche folata anche in Slovenia. Una nazione, la Slovenia, che non ha fondato sulla guerra il suo diritto all’autodeterminazione, ma sulla cultura. Una cultura peculiare, influenzata nella filosofia politica dal pensiero tedesco, e che nell’arte e nella letteratura ha ben appreso la lezione italiana. Una cultura veicolata dalla lingua slovena che è diventata fondamento dell’idea di nazione. Un’idea coltivata dai drammaturghi e dai poeti come quel Valentin Vodnik (1758-1819) che fondò il movimento di risveglio nazionale sloveno. Non stupisce dunque che una nazione fondata sul libro, abbia negli scrittori i suoi pater patriae.
Uno di questi è Boris Pahor, storico insigne, che con lucidità seppe puntare il dito contro le atrocità nazi-fasciste durante l’ultima guerra mondiale. Il suo capolavoro, Necropoli, per breve tempo profumò di Nobel. Ebbene Pahor negli ultimi anni ha perso la Trebisonda. Prima ha paventato il rischio che si aprissero asili italiani anche nella Slovenia non litoranea, poi ha criticato la risoluzione della crisi di Pirano, che per vent’anni ha opposto Lubiana a Zagabria. Ora lancia i suoi strali contro il sindaco nero: “Abbiamo dato tanto per quel pezzo di terra e adesso abbiamo un sindaco nero. Dio mio, dov’è in tutto ciò la coscienza nazionale? Se hanno già eletto un non sloveno avrebbero dovuto votare un membro della comunità italiana che vive lì. Far diventare uno straniero sindaco è un cattivo segno”.
Pahor razzista? Nient’affatto, spiega lo scrittore: “La questione resterebbe identica anche se fosse fiammingo”. E continua precisando che l’elezione di Brossman è “una decisione che è democratica, ma che a mio avviso dimostra la carenza di coscienza identitaria”. Più che razzismo, questa, è paura dello straniero, xenofobia si chiama, con un pizzico di radicalismo conservatore.
Certo il tema “identitario” non è di per sé un male, ma nel procedere del percorso di integrazione europea mettersi a parlare di stranieri “italiani” o negare il diritto di cittadinanza (Brossman è cittadino sloveno da trent’anni) a chi ha la pelle nera, non sembra utile a costruire il futuro ma solo a distruggere il presente per renderlo il più possibile simile a un passato che forse mai è realmente esistito.