TURCHIA: Aleviti, memorie di una minoranza dimenticata

Articolo apparso sul numero di settembre 2014 della rivista MOST, il magazine di East Journal edito da Quintadicopertina Editore. Non perdetevelo! 

In Turchia sono sei milioni. O forse quindici. Magari venti. Le stime demografiche sugli aleviti non potrebbero essere più vaghe. Quello che è certo è che essi rappresentano la più consistente minoranza religiosa presente in Anatolia, nonché uno dei gruppi più perseguitati e sotto-rappresentati delle storia ottomana e turca. Se dell’etnia curda si è (a ragione) tanto parlato, una coltre di ignoranza e disattenzione ha invece soffocato nel nulla la questione alevita.

Uno studio del 2008 commissionato dall’esercito parla di una decina di milioni di appartenenti al gruppo etnico-religioso degli aleviti, ma in altre stime essi appaiono raddoppiati o dimezzati. Le ragioni di questa incredibile distanza tra cifre sono principalmente tre. In primis, la tendenza naturale delle stime governative ad abbassare il più possibile l’impatto demografico di una minoranza presente sul territorio. Dalla parte della fetta di popolazione indagata, poi, si manifestano due forze contrapposte. Da un lato, le associazioni per la tutela della minoranza alevita puntano su numeri molto consistenti per dare sostegno alle istanze di riconoscimento e tutela della propria identità; dall’altro è sempre stato molto difficile, nell’ambito delle indagini demografiche, distinguere gli aleviti dal resto della popolazione e ciò ha portato a stime fortemente al ribasso. Questa tendenza si deve alla secolare pratica della taqiyya o dissimulazione, esercitata dalla maggioranza dei gruppi sciiti per sfuggire alle tante persecuzioni susseguitesi nel corso della storia islamica.

Setta sciita o gruppo extra islamico? Le peculiarità della comunità alevita.

La tradizione alevita, dall’origine controversa e dibattuta, affonda le proprie radici probabilmente nel XIII secolo. Come i drusi, gli yarsa e gli alauiti, gli aleviti derivano da quel gruppo appartenente alla shi’a che decise di seguire Alì -il cugino e genero di Mohammed- creando una corrente all’interno dell’islam che non è mai riuscita a liberarsi dell’etichetta di “deviante”. Per gli aleviti, come per gli altri gruppi sciiti nel mondo, è quotidiana anche la messa in discussione della loro appartenenza alla comunità musulmana. Nel caso della minoranza turca, i rituali e alcuni precetti si discostano alquanto da quelli che un musulmano sunnita considera obbligatori per ogni fedele.

Non una moschea (camii in Turco), bensì una Cemevi è il luogo dove la comunità alevita si ritrova per le preghiere. Il dede, guida spirituale, conduce la cerimonia, chiamata cem e caratterizzata da un’importante presenza di musiche e danze che si deve alle forti influenze del misticismo sufi nella corrente. Un altro fattore di distinzione è la lingua della preghiera. Se i musulmani sunniti di tutto il mondo sono accomunati dalla recita delle preghiere nella lingua di Allah, cioè l’arabo coranico, le cerimonie alevite si svolgono in turco o, talvolta, in curdo. I precetti coranici assumono un valore e una priorità diversi nella prospettiva alevita e alcuni principi “illuminati” sono alla base della professione di fede: l’amore e il rispetto per tutti, la tolleranza verso le altre religioni ed etnie, il rispetto per i lavoratori e l’uguaglianza tra uomo e donna, anche nella preghiera.

Tra le varie fonti di confusione rispetto a questa comunità dell’Anatolia pressoché sconosciuta, ci sono anche i vari nomi e categorie con i quali essa viene riconosciuta. Ad esempio, gli aleviti sono chiamati anche Bektashi, per il loro forte legame tradizionale con Hajji Bekhtash Veli, un santo del XIII secolo. Lasciate da parte le questioni di definizione, il problema principe rimane il costante tentativo turco di omologazione culturale ai danni delle minoranze.

Aleviti e Turchia: tra persecuzioni, dissimulazione e partecipazione politica

Quando si parla poco di qualcosa è perché il soggetto non esercita grandi influenze, oppure perché conta troppo e a qualcuno non conviene. Così ci chiediamo: quanto incide la presenza alevita in Turchia? Oggi, individui di fede ed etnia alevita si trovano pressoché in ogni parte della Turchia, ma originariamente la comunità si era sviluppata in Anatolia Centrale. La città di Tunceli (un tempo Dersim) è ancora oggi a maggioranza alevita, e rimane l’unica in tutta la Turchia a presentare questa condizione. A causa della forte migrazione dalle campagne alle città avvenuta a partire dagli anni ’60, molti aleviti abitano nelle grandi metropoli della Turchia occidentale, come dimostra il gran numero di cemevi presente ad Istanbul: più di sessanta, sette nel solo quartiere di Ümraniye.

La diffusione della minoranza alevita in Turchia

I capitoli della storia che raccontano la problematica relazione tra aleviti e politica in Anatolia sono dominati dalle ostilità e dalla perpetua condizione dei primi di minoranza indesiderata, quando non perseguitata. Durante l’impero ottomano, secondo la costituzione, l’unica religione di stato era l’islam (inteso come sunnita) e gli aleviti di conseguenza erano considerati eretici; la situazione non migliorò con le Tanzimat né con l’avvento dei Giovani Turchi che, per affermare l’identità turca, praticarono azioni di assimilazione forzata o espulsione nei confronti di coloro che differivano per etnia, religione, o lingua.

Uno spiraglio di luce le comunità alevite lo videro con l’arrivo di Mustafa Kemal. Una delle sei “frecce” a fondamento della nuova Repubblica turca era infatti il secolarismo, e con esso la promessa di un’uguaglianza formale e sostanziale a tutti i livelli della società e della politica. II tenace sentimento anti-religioso, però, colpì anche la religione alevita che fu abolita come istituzione e fu costretta a rimanere in vita soltanto attraverso l’aspetto “culturale”. Le belle speranze riposte in Atatürk furono tradite rapidamente anche da pesanti dichiarazioni dello stesso, che nel ’35 li definì “un ascesso che va distrutto”. Nonostante questo, gli aleviti mantengono ancora oggi un’incrollabile fiducia nel kemalismo. Dopo soli tre anni dalle minacciose parole del Presidente, avvenne l’episodio più doloroso nella memoria alevita.

Nel 1938 a Dersim (oggi Tunceli) le autorità reagirono a un’insurrezione curda con una sproporzionata e violenta repressione, finita col sangue di oltre 13mila vittime. Oltre a queste, 22mila persone furono costrette all’esilio e una generazione di bambini cresciuti negli orfanotrofi fu sottoposta a una sistematica operazione di “turchizzazione”. L’obiettivo non era, evidentemente, il mantenimento del semplice ordine pubblico durante un’insurrezione e, come emerso da documenti recuperati in tempi recenti, il progetto era già nell’aria da almeno tre anni. Nonostante le sue dimensioni lo inscrivano tra i peggiori traumi vissuti da questa comunità, l’episodio appena riferito è solo uno di un’inquietante serie di massacri. Dagli anni ’60 in poi la Turchia visse gli eventi di Çorum, Malatya, Maras, Gazi, fino a giungere alla strage di Sivas del 1993 in cui, in un culmine di odio e follia alcuni uomini diedero fuoco ad un albergo che ospitava musicisti e cantanti nel giorno in cui celebravano Pir Sultan Abdal, un santo e poeta molto venerato nella tradizione alevita. Quel giorno, a Sivas, in un comune albergo, 37 persone morirono bruciate vive.

Le famiglie alevite non sono nuove alla triste necessità di spostarsi, fuggire, nascondere la propria appartenenza. Come lo è stato nel corso di centinaia di anni per le tante minoranze presenti nell’universo musulmano, la pratica della dissimulazione ha costituito un fattore chiave per la sopravvivenza. La diffidenza nei confronti dell’esterno ha portato la comunità alevita a chiudersi. Negli anni ’70 si assiste però ad un fenomeno nuovo: solleticati dal vento delle teorie marxiste che in Turchia ha soffiato forte, gli aleviti per la prima volta rivendicano apertamente il diritto alla propria identità. La classe media e gli studenti si risvegliano e denunciano a gran voce i tentativi di assimilazione attuati dallo Stato turco. La dissimulazione lasciava il posto alla protesta politica. Come nel caso di altri movimenti sessantottini, però, il periodo di spinta rivoluzionaria finì con qualche importante risultato e molte richieste lasciate cadere nel vuoto.

La non rappresentanza, l’apertura al dibattito e il coinvolgimento nelle questioni Turchia-Siria

Ciò che è più importante per una minoranza è il riconoscimento della stessa come parte della sfera politica del Paese in cui risiede. Il non sentirsi estranei, ma  cittadini a tutti gli effetti. Lunghi anni di lotta politica, richieste e rivendicazioni non hanno portato a risultati soddisfacenti da questo punto di vista. Nel 2010 un solo membro del parlamento turco faceva parte della comunità alevita. Come è noto, per quanto le stime siano approssimative, la percentuale di popolazione alevita in Turchia è ben superiore all’1%.

Un altro problema di fondo affligge la società turca contemporanea e si riscontra nell’effettiva disuguaglianza di trattamento tra le fedi presenti. Una dimostrazione palese la offrono l’esistenza e il funzionamento del Diyanet, ovvero il Direttorato generale per gli affari religiosi. Questa istituzione, foraggiata dallo Stato con circa un miliardo di dollari l’anno provenienti dalle tasche di tutti i contribuenti, rappresenta solo ed esclusivamente la prospettiva e gli interessi sunniti. Lo ha apertamente ricordato il presidente della Repubblica Gül pochi mesi fa nel definirla responsabile dell’importante compito di “insegnare la nostra religione alla nostra gente nel modo più corretto, pulito, conciso e condurli lontani dalla superstizione” [corsivo del redattore]. Una perfetta interpretazione del concetto di libertà religiosa a la turca.

Qualche timido accenno di cambiamento, tuttavia, si nota negli ultimi tempi. Nel 2011 il presidente del Diyanet Görmez ha visitato una cemevi di Istanbul, simboleggiando un’apertura verso il riconoscimento delle stesse come luoghi di culto. Ancora prima, nel 2009, Erdoğan aveva dato il via a un confronto sul tema delle minoranze a cui gli aleviti sono interessati doppiamente, dal momento che un terzo di essi è anche di etnia curda. Il programma istituzionale prevedeva degli incontri tra il governo e i rappresentanti della comunità. La frammentazione interna e la diffidenza nei confronti dello Stato ha portato anche questo progetto di avvicinamento a un punto morto. Ali Balkız, il presidente della Federazione Alevi-Bektashi, ha espresso il suo scetticismo confidando che piuttosto che di avvicinamento, questi tentativi da parte del governo potrebbero definirsi di “assimilazione dalla parlata suadente”. In questi giorni, la notizia dell’inaugurazione di un monumento per commemorare le tante vittime del massacro di Dersim che non ebbero nemmeno una degna sepoltura lascia pensare ad una grande opportunità, sia per  gli aleviti che per il governo.

Riaprire pagine di storia archiviate da tempo accettando e accertando la verità da un lato e dall’altra parte insistere e dialogare sui diritti di cittadinanza che spettano in modo eguale a tutti i cittadini della Turchia può essere un ottimo punto di partenza per affrontare una grande questione irrisolta. La Turchia è chiamata a farlo da più fronti, prima di tutti quello europeo, e non può continuare a sfoggiare l’espressione “diritti umani” attraverso operazioni di chirurgia plastica politica. È necessario arrivare alla sostanza, affrontare il cuore dei problemi. Anche perché, spesso, instabilità interna può significare instabilità esterna.

Gli aleviti sono sempre stati una minoranza dalle rivendicazioni non armate, pacifiche ed espresse sin troppo sottovoce per uno Stato che non ascolta. La situazione di crisi nel sud della Turchia a causa della guerra in corso in Siria potrebbe vedere un altro attore entrare in gioco: proprio gli aleviti della provincia di Hatay (circa 500mila persone). Gruppi neo-nazionalisti hanno sfruttato il momento di subbuglio per cercare di politicizzare gli aleviti di questa zona, probabilmente nel doppio tentativo di provocare un conflitto etnico ad Hatay e spingere il governo turco ad abbandonare la sua attuale politica anti-Assad. Tra i possibili ulteriori fattori di crisi, la vicinanza culturale tra aleviti turchi e alauiti siriani. Nonostante siano due comunità diverse e indipendenti, esse condividono la stessa origine (Aleviti è la pronuncia turcofona di alauiti e deriva da “Alì”) e il sentimento di risentimento nei confronti della prepotente maggioranza sunnita.

Una particolare attenzione alle minoranze, anche quelle dai contorni offuscati e meno sostenute dalla comunità internazionale, è dunque strumentale all’ordine e alla pace, oltre che necessario per potersi definire, a buon ragione, una democrazia.

 

 

 

 

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