Lo sciamanesimo è stata la principale e più distintiva pratica culturale della civiltà turco-mongola delle origini. La stessa parola “sciamano” deriva infatti dall’altaico – cioè il gruppo linguistico a cui appartengono il turco, il mongolo e il tunguso – şaman, trapiantato per la prima volta nell’Europa nel ‘600 per indicare la religione dei popoli tungusi (o manciù) della taiga siberiana. Solo successivamente questo termine sarebbe stato utilizzato per descrivere varie pratiche trans-culturali diffuse in varie parti del mondo, diventando così una categoria antropologica generale.
Tuttavia, nel senso più stretto e rigoroso della parola, il concetto di sciamanesimo indica nello specifico le pratiche culturali-religiose distintive della civiltà turco-mongola. Studiato in modo completo e sistematico soprattutto dal grande turcologo francese Jean-Paul Roux, lo sciamanesimo turco è un fenomeno culturale, non strettamente e unicamente religioso, che però presuppone come orizzonte concettuale e filosofico una religione animistica e sostanzialmente panteista, retta da una concezione immanente del divino, e quindi opposta a quella del Cristianesimo e dell’Islam.
Questa religione originaria turco-mongola, definita tengrismo (da tanrı, parola altaica per indicare la divinità) si presenta come poco strutturata da un punto di vista dottrinale, ma ha in compenso sviluppato un imponente complesso di norme etico-morali, relative ai rapporti che gli uomini intrattengono tra essi e con la natura, chiamato yasa. Questo codice etico venne con ogni probabilità codificato nella sua forma classica durante l’impero mongolo del XIII secolo, ma le sue origini sono certamente molto più antiche. Il contenuto della yasa, in quanto legge positiva, non era conosciuto da parte del popolo, in quanto i testi in cui erano contenute le leggi erano unicamente a disposizione della famiglia imperiale e non potevano essere letti da nessun’altro. L’osservanza della yasa non consisteva nel rispetto di un determinato regolamento, ma aveva un significato etico più profondo, sostanzialmente religioso e mistico.
Benché nella lingua turca moderna yasa significhi semplicemente “legge”, la yasa non è una mera legge religiosa. Non è un derivato della religione tengrista, ma ne costituisce al contrario l’autentica e completa espressione formale e sostanziale. Il codice morale della yasa è in definitiva il contenuto stesso della religione turco-mongola delle origini. L’osservanza della religione coincide dunque con il rispetto dello stile di vita improntato sulla yasa, e le stesse pratiche sciamaniche vanno inserite in questo contesto culturale. Da qui deriva il carattere umanistico ed ecologista ante litteram che caratterizza lo sciamanesimo in quanto espressione del tengrismo e della yasa.
Con la diffusione tra i popoli turchi delle grandi religioni monoteistiche, in testa l’Islam oggi predominante, il tengrismo entrò in crisi e almeno formalmente scomparve nella maggioranza del mondo turcofono. Oggi resiste, nella sua forma pura, quasi esclusivamente nei monti Altai, dove ad inizio ‘900 si è persino sviluppato un movimento di rinnovamento di questa religione: il burkhanismo. Dopo il crollo dell’Unione sovietica movimenti più o esplicitamente neo-pagani si sono diffusi in tutto il mondo turcofono ex-sovietico, ma si tratta di un fenomeno culturale inautentico e che comunque non ha ottenuto grande fortuna.
Eppure lo sciamanesimo pare essere stato in grado di sopravvivere in diverse forme all’interno delle società turche. Tra i popoli turchi più nord-orientali, come i kazaki e i kirgizi musulmani o le tribù siberiane per lo più cristianizzate dai russi, la pratica dello sciamanesimo convive piuttosto apertamente e senza apparenti problemi con la religione ufficialmente – ma anche superficialmente – professata dalla maggioranza della popolazione. In queste società pastorali il prete/imam e lo sciamano, il religioso e il magico, il trascendente e l’immanente, sembrano convivere come poli dialettici di un’unica esperienza del sacro.
Il discorso sull’eredità culturale dello sciamanesimo non può però limitarsi ai soli popoli nomadi della steppa e della tundra. Il confronto tra la figura dello sciamano kazako e chirghiso (bakşı) e i bardi mistici dell’Anatolia e del Caucaso (aşık), è rivelatore di come, anche se molto meno apertamente, tracce profonde dell’eredità tengrista e sciamanica siano rintracciabili nella religiosità popolare di tutti gli altri popoli turchi, compresi gli stessi turchi di Turchia.
Più controverso è il tema relativo alla presenza di elementi animisti e sciamanici nella cultura delle élites dominanti degli imperi islamici governati dalle grandi dinastie turche. Sempre secondo Jean-Paul Roux, al di sotto dell’apparente adesione all’Islam sunnita, la civiltà timuride inaugurata da Tamerlano nelle steppe della Transoxiana era appunto permeata dal “paganesimo” che ne costituiva l’ossatura culturale e ne determinava la visione del mondo.
Per comprendere l’importanza della cultura sciamanica delle steppe in tutta la storia turca, è illuminante leggere quanto ha scritto Giorgio Vercellin – uno dei maggiori orientalisti italiani – proprio sugli ottomani difensori dell’ortodossia sunnita e restauratori del califfato. Secondo Vercellin, dietro quella che lui chiama “la facciata coranica” era in realtà possibile scorgere le antiche concezioni turco-mongole di ordine cosmico e la stessa yasa come fondamento occulto della civiltà ottomana. La suggestione di Vercellin deve portarci a considerare che, se i turchi abbandonarono certamente quasi ovunque lo sciamanesimo nella sua forma pura, è altrettanto vero che la visione animista e sciamanica dei loro antenati non smise mai del tutto di permearne la cultura.