In Turchia la cosistenza tra laicità e Islam rappresenta da sempre un nodo cruciale. Il partito al governo recentemente riconfermato, AKP, sembra cavalcare l’onda di questa tensione alimentando la pressione sociale, specialmente nei confronti della donna.
Elif Shafak, scrittrice turca molto conosciuta sia in patria sia all’estero, ha recentemente pubblicato un articolo sull’International New York Times prendendo spunto da alcune scritte apparse su dei cartelloni pubblicitari di Istanbul in cui erano rappresentati dei corpi femminili semi-nudi. Su alcuni di questi cartelloni sono stati disegnati dei burqa con lo spray nero, accanto a scritte come “non commettete indecenza!”.
La questione Islam e il relativo dibattito che ne scaturisce sono temi molto caldi in Turchia: non solo perché in questo paese più che in altri l’appartenenza religiosa e l’utilizzo dei relativi simboli diventano un’estensione del dibattito politico, ma soprattutto perché in molti casi questo può riflettersi in una discriminazione di genere.
La polarizzazione sociale è un fenomeno ben noto in un paese in cui la definizione di “identità nazionale” appare come un processo in continua evoluzione. Sin dalla fondazione della Repubblica nel 1923 per opera di Mustafa Kemal (noto con l’appellativo di Atatürk, “padre dei turchi”) si è cercato di forgiare il concetto di “stato moderno” e di conseguenza di “cittadino moderno”, nel tentativo di slegarsi dalla pesante eredità ottomana e rendere la Turchia capace non solo di difendersi, ma di competere con le nazioni europee.
Durante questo lungo ed elaborato processo di ristrutturazione politica e sociale i passi compiuti sono stati molti, dall’introduzione dell’alfabeto latino al divieto di indossare indumenti che potessero richiamare l’appartenenza a comunità religiose o a gruppi etnici.
Nei primi anni della repubblica furono attuate pesanti riforme per escludere l’Islam e le minoranze (come curdi, aleviti e in generale tutte quelle che non corrispondevano alla definizione di “turco”) dal processo decisionale politico, creando così le premesse per il senso di esclusione ed emarginazione che questi gruppi provano tuttora. Il progetto di fondazione del nuovo stato ha nei fatti scardinato il complicatissimo gioco di incastri che costituiva la sudditanza dell’Impero ottomano, imponendo omogeneità in un contesto multiculturale e multietnico.
In particolare, l’obiettivo di quella che nei fatti è stata una vera e propria “demonizzazione” dell’Islam era rendere la Repubblica di Turchia una nazione laica e creare le premesse per un controllo statale della religione, di modo che se proprio doveva esserci interazione fra le due sfere questa dovesse essere gestita dalla repubblica stessa. In Turchia, infatti, contrariamente alla tradizione presente in molti paesi mediorientali, è lo Stato che per Costituzione controlla e regola la dimensione religiosa e decide entro quali confini essa può muoversi. Naturalmente questa rigida separazione ha comportato delle notevoli fratture sociali mai ricomposte.
Il tema “religione” (mai scomparso dalla scena politica ma apparso in forme più dissimulate) sembra essere prepotentemente tornato a reclamare attenzione soprattutto a seguito dell’arrivo al governo del partito AKP (Adalet ve Kalkınma Partısı), che ha riproposto la questione con notevole forza rispetto ai precedenti partiti, strumentalizzandola quando necessario per i propri fini politici.
Oggi il linguaggio politico prevalente sembra incentivare il ritorno dell’Islam all’interno dello Stato e della vita quotidiana del cittadino, e così facendo vengono alimentate tensioni e la polarizzazione sociale tra chi segue uno stile di vita religioso e chi invece laico. Questo, in città metropoli come Istanbul, si riflette anche nella geografia cittadina: esistono quartieri considerati più “conservatori” mentre ce ne sono altri più adatti allo stile di vita di persone “moderne”.
La conclusione di Elif Shafak è che in una battaglia di questo tipo in cui la cultura della coesistenza si sta erodendo velocemente, la donna, le sue prerogative d’indipendenza e le sue possibilità di carriera rischiano di venire erose da una pressione sociale che tende a stereotipare le figure femminili nel ruolo di mogli e madri, senza che loro possano avere troppa voce in capitolo. Di nuovo.