UNGHERIA: Orbán l’anti-Juncker. Cronaca di un rifiuto annunciato

Quella di martedì scorso 15 luglio è sicuramente una data da ricordare nell’ormai pluridecennale processo di costruzione europea. Non che l’elezione di un presidente della Commissione sia particolarmente determinante per le sorti dell’Unione europea, ma il modo in cui è maturata la designazione del lussemburghese Jean Claude Juncker alla successione di Barroso potrebbe avere effetti importanti nei prossimi anni.

La rottura dell’unanimità all’interno del Consiglio e la scelta di un candidato de facto espressione del Parlamento rischiano infatti di portare ad uno sbilanciamento nei rapporti tra vertici istituzionali dell’UE. La scarsa affluenza al voto per il rinnovo dell’europarlamento del 25 maggio poi, congiuntamente all’avanzata di forze e movimenti estremisti e dichiaratamente antieuropeisti, restituiscono un quadro in cui alleanze politiche interne ed esterne si ridisegnano. Ecco spiegato perché ad esempio una settimana fa a Strasburgo laburisti inglesi e conservatori ungheresi del partito Fidesz hanno votato insieme contro Juncker.

Tutto nasce dall’intransigenza con cui il premier inglese Cameron e quello ungherese Orbán si sono fermamente opposti allo Spitzenkandidaten (candidato-guida) dei popolari europei che in un mese è riuscito ad ottenere l’appoggio di socialisti e liberali oltre a raccogliere il consenso di Germania, Francia e Italia inizialmente non proprio entusiasti del lussemburghese già presidente dell’eurogruppo. Alla fine, vinte anche le resistenze di Svezia e Olanda ultimi convertiti del fronte del “no” a Juncker, ha prevalso la volontà di evitare un rovinoso scontro tra istituzioni europee.

Non per Gran Bretagna e Ungheria. Il rifiuto inglese è quello inevitabilmente più grave e desta un clamore mediatico maggiore se si considera che lo sbocco di questa vicenda, per come Cameron ha condotto le trattative, potrebbe essere nel medio termine l’uscita del paese dall’Unione. Valga per tutte una considerazione di un editoriale apparso sul portale internazionale del settimanale tedesco Der Spiegel secondo cui “l’Europa tra la democrazia e la Gran Bretagna deve scegliere la democrazia”.

La posizione del governo magiaro matura in questo contesto. Per evitare che resti schiacciata da quella britannica e che venga semplicemente rubricata come la solita millanteria del solito leader estremista est-europeo proviamo qui a spiegarne la genesi. Che il premier ungherese Viktor Orbán fosse contrario alla candidatura di Juncker alla guida della Commissione europea lo si sapeva già da quando a inizio marzo al congresso del Partito popolare europeo – di cui è membro con il suo Fidesz – aveva sostenuto il francese Michel Barnier. Il senso di disciplina nei confronti del partito non si è rivelato tuttavia sufficiente a superare una serie di attriti passati che la stampa magiara è stata pronta nel riproporre all’opinione pubblica. Juncker, già reo agli occhi della destra ungherese di aver taciuto nel 2006 in veste di presidente dell’eurogruppo di fronte ai dati negativi di bilancio del governo socialista Gyurcsány, difese la sua compatriota Viviane Reding che da commissario europeo mosse ripetute critiche all’eccessivo ”dinamismo” costituzionale di Orbán.

In più, secondo fonti anonime del quotidiano conservatore Magyar Nemzet, la Reding in una riunione del gruppo Bilderberg nel giugno 2013 avrebbe reso noto il suo impegno per delegittimare il voto delle politiche ungheresi di aprile con il concorso dell’ex-premier Gordon Bajnai. Una campagna antiabortista finanziata impropriamente con contributi europei riservati a diverse finalità sociali, sarebbe poi stata all’origine di ulteriori frizioni tra Orbán e la commissaria lussemburghese.

Meno diplomatico a dispetto del suo ruolo Jean Asselbornt, che da ministro degli esteri del governo Juncker, paragonò il premier ungherese a Lukashenko attribuendogli pure la qualifica di ”vergogna dell’UE”. Quanto basta a dare un senso alle parole pronunicate dal leader del Fidesz alla vigilia del voto europeo:”I commissari lussemburghesi negli ultimi tempi ci hanno solo danneggiato, perchè dunque dovremmo sostenere qualcuno proveniente dal Lussemburgo?”.  Motivazione forse inappropriata e poco esauriente, tale da abbassare il dibattito ai limiti di una questione personale. Tutto sommato Juncker da parte sua non ha mai fatto mistero in passato di non rappresentare con lo stesso piacere tutti i membri del PPE.

Fin qui gli argomenti marginali, non proprio qualificanti quella che in realtà è una contrarietà di principio di Orbán al neoeletto presidente della Commissione e alla sua idea di Europa. Come Cameron – ma in partenza era la convinzione di diversi capi di governo Merkel compresa – il premier ungherese rifiuta l’idea dell’automatismo, non figurante in nessun trattato né tantomeno in quello di Lisbona, tra il candidato di punta del partito vincente alle elezioni europee e la presidenza della Commissione. “Bisogna dare un segnale chiaro, ha dichiarato nella conferenza stampa del Consiglio europeo di fine giugno, perché avallare questo principio significherebbe premiare le politiche dei cinque anni appena trascorsi”. Anni in cui l’Unione, secondo Orbán, ha consolidato la prassi di mettere in discussione materie unanimemente riconosciute essere di competenza nazionale.

Il riferimento è ai capisaldi della sua azione di governo, progetti che attualmente sono in stadi diversi di avanzamento e la cui piena realizzazione potrebbe essere “minacciata” da Bruxelles: abbassamento delle tariffe (rezsicsökkentés), tassazione delle banche e difesa del suolo fino ad arrivare  alle questioni energetiche come il piano di ristrutturazione della centrale nucleare di Paks ed il South Stream, vicende queste ultime che invadono ampiamente il campo delle relazioni con la Russia. Il ”no” di Orbán a Juncker, gesto reso plateale e singolare anche per via delle convenienze trovate in extremis dagli altri capi di governo, non è del tutto privo di contenuti e pur esponendo l’Ungheria al rischio isolamento segue una sua logica che non può essere ridotta a puro ”estremismo”. ”Estremista è chi sostiene un qualcosa che può rivelarsi pericoloso per la nazione magiara” ha dichiarato egli stesso in una lunga intervista alla rete televisiva filo governativa HírTV  a margine delle europee. “Il Fidesz – ha continuato – si colloca al centro, in una posizione di equilibrio tra la sinistra internazionalista che fa tutto quello che le dice di fare l’Europa e la destra estrema (dello Jobbik ndr) che invece dall’Europa vorrebbe uscire”.

Il posto dell’Ungheria è in Europa perché l’identità e la civilizzazione europee sono un valore per gli ungheresi. Orbán lo ricorda anche stavolta sottolineando l’importanza della presenza nelle istituzioni dell’Unione, fondamentale per prendere parte a quelle decisioni in cui devono essere fatti valere gli interessi nazionali. “Gli ungheresi hanno capito l’importanza della posta in palio nel voto europeo – ha ribadito il capo del Fidesz su HírTV – perché nelle burocrazie di Bruxelles c’è chi vuole fare scomparire l’appartenenza nazionale a tutto vantaggio della cittadinanza europea”.

Viktor Orbán conferma in questa vicenda il suo approccio classico all’Unione europea con gli ingredienti di sempre: opportunismo e pragmatismo. Oggi non si può prescindere né dall’Unione né dagli indubbi vantaggi economici che ne derivano, dalle opportunità di mercato e di sviluppo all’utilizzo di fondi e finanziamenti. “Se va bene l’UE va bene anche l’Ungheria”, lo aveva detto un anno fa alla conferenza annuale degli ambasciatori. Ma a casa nostra comandiamo noi. Questa la sostanza del rapporto con l’UE che negli ultimi anni ha visto Orbán sulla difensiva a causa delle polemiche legate all’approvazione della nuova costituzione, alla legge sui media e alla tassazione speciale sulle società multinazionali. Ora però qualcosa è cambiato.

I risultati economici rincuoranti, la ripresa della crescita economica, il calo della disoccupazione e l’interruzione della procedura di infrazione per deficit ecessivo influiscono positivamente sulla credibilità del paese. Da non sottovalutare l’esito del voto alle politiche di aprile ed il 51% rimediato alle europee. Se queste nette affermazioni devono far riflettere le opposizioni nondimeno possono legittimare Orbán ad assumere atteggiamenti irremovibili sempre e comunque, specie in ambito europeo dove l’anima del processo di integrazione è il compromesso, cosa di cui dovrà fare sapiente uso ora che lo attendono almeno tre priorità nell’agenda europea.

La partita delle nomine, già rinviata ad agosto, ed in cui il premier magiaro si aspetta per il suo attuale ministro degli esteri  Tibor Navracsics il ruolo di commissario per l’allargamento; ricucire con Juncker, adesso ufficialmente capo dell’esecutivo dell’Unione, per evitare che ennesime ruggini compromettano la considerazione internazionale del paese; mantenere una affinità di profilo e di condotta con il Partito popolare europeo dove, nonostante il voto espresso contro il candidato-guida del gruppo alla Commissione, eurodeputati del Fidesz come Támas Deutsch e György Schöpflin hanno conseguito di recente nomine importanti. Il comportamento di Orbán colloca per il momento l’Ungheria esattamente sulla frontiera che separa gli euroentusiasti dagli antieuropeisti tout court, l’area cioè degli euroscettici, di coloro che sconfinano in entrambi i campi alternando accelerazioni e frenate nel percorso dell’integrazione dell’Unione a seconda di utilità e contingenze. Categorie, quelle appena citate, che ospitano ciclicamente tutti gli stati nazionali, siano essi membri fondatori o ultimi arrivati e sul cui equilibrio si misurano i progressi del progetto europeo.

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