Esiste una parentesi minore ma molto significativa del dopoguerra italiano, scivolata via – chissà perché – dai canali della storia ufficiale, eppur così interessata in questi ultimi anni a studiare e riscoprire le vicende degli italiani in Jugoslavia alla fine della Seconda guerra mondiale. Io stesso mi ci sono imbattuto del tutto casualmente, attraverso un formidabile radiodocumentario realizzato da Andrea Giuseppini, prodotto da Amis e Radioparole nel 2006.
Il sogno di una cosa prende il titolo da un’opera pasoliniana e, come il lavoro narrativo di Pasolini, nasce nel mondo rurale di un Friuli immiserito. Tra il 1946 e il 1947 alcune migliaia di lavoratori, contadini, disoccupati lasciano l’Italia e passano illegalmente la frontiera jugoslava. Sono anni confusi, di inquietudine e speranza. Anni in cui lo stesso destino di Trieste pare oscillare fra Est e Ovest, dove alcuni, forse più di quanti si voglia far credere oggi, aspirano alla “settima federativa”, a quella porzione di territorio comprendente Trieste e provincia che si vorrebbe far passare sotto lo stato jugoslavo. Manca il lavoro, mancano le case, il cibo. Eppure non è solo la fame a spingere a questo controesodo, è anche qualcos’altro, qualcosa di più: è l’ideale di un mondo diverso, perché “di là era il comunismo, a cercare la fortuna”.
È un paese che deve rinascere, venire ricostruito dalle fondamenta. Mancano le infrastrutture, i servizi, e soprattutto le maestranze e le conoscenze per dare vita a tale processo. Così se da un lato sarà la competenza dei lavoratori di Monfalcone a dar vita alle industrie cantieristiche di Pola e Fiume, dall’altro molti zappaterra verranno formati proprio lì, sul posto, per divenire costruttori edili, carpentieri, falegnami. Attraverso le vecchie, calde voci di alcuni testimoni, uomini e donne ormai ottuagenari, riaffiora in un linguaggio semplice, a tratti desueto, il sogno, la speranza di una società nuova, nuda ma per questo intesa come ricca di opportunità, a cui volgersi e dedicarsi con l’idea di “andare a costruire il socialismo”. Lo stupore maggiore è scoprire che davvero, nonostante tutte le difficoltà del dopoguerra, le prospettive sono effettivamente superiori a quelle di un’Italia stagnante, ancora lontanissima dal boom economico che solo dagli anni ’60 le permetterà di risollevarsi da una miseria cronica e diffusa. La partecipazione entusiastica alle brigate di lavoro volontario per la costruzione di grandi opere, strade e ferrovie, alla vita locale, agli spettacoli, alle manifestazioni sportive, crea un senso d’appartenenza e fiducia tra popolazione locale e immigrati italiani stupefacente, considerato anche il recentissimo passato di occupazione nazista e fascista. Sono anni in cui davvero l’impossibile sembra possibile, dove i diritti fondamentali, l’uguaglianza e la giustizia paiono mete raggiungibili e pilastri realizzabili.
Tutto ciò però giunge a una fine brusca e inattesa, quando nell’estate del 1948 la Jugoslavia di Tito viene espulsa dal Cominform, la lega dei partiti comunisti voluta da Stalin dopo la fine della guerra, e che univa i PC dei diversi paesi europei, tra cui anche l’Italia. Si entra in un fase di terrore, sospetto, nella quale il partito jugoslavo usa il pugno di ferro contro gli stalinisti veri e presunti, nella pericolosa (e poi riuscita) lotta di mantenimento del controllo e dell’indipendenza rispetto alla sfera d’influenza sovietica, alle sue porte. Gli italiani, in maggioranza legati ad un PCI che attraverso Togliatti aveva manifestato il proprio appoggio alla scomunica di Tito per la sua politica “deviazionista”, si trovano spiazzati. Non comprendono più il corso degli eventi, legati ancora al mito della Russia socialista, non accettano il nuovo corso jugoslavo, e come tali, di fatto, si trovano costretti, con le buone ma spesso con le cattive, a lasciare il paese. La maggioranza dei friulani e monfalconesi rientrano in Italia, ma alcune centinaia solo dopo aver trascorso anni nelle dure prigioni del regime titino, come l’isola di Goli Otok, per la “rieducazione” dei cominformisti.
Ritengo che questa vicenda possa rivelarsi un’interessante chiave di lettura per quanto riguarda la precedente e forse anche contemporanea vicenda dell’esodo italiano dall’Istria e dalla Dalmazia, che si tende spesso a far passare, per ragioni discutibili, un mero fatto etnico e di odio razziale, quando ha avuto alla base ben più gravi e implicanti motivazioni politiche e storiche, poi degenerate, ma difficilmente comprensibili se lette come pregiudizievoli verso gli italiani semplicemente in quanto tali.
Per chi volesse approfondire c’è il link di Radioparole, con la speranza che progetti di ricerca come questo riescano a trovare più spazio e voce in un mondo che sempre più spesso e sempre più forte grida senza cognizione di causa né interesse alla (ri)scoperta.
un approfondimento molto interessante!