Anche Dio porta il fucile. La chiesa ortodossa serba e la guerra

Durante cinque secoli di occupazione turca la Chiesa ortodossa serba (COS) è stata senz’altro un simbolo dell’identità di un popolo, rimanendo pertanto indissolubilmente legata all’emergente ideale nazionalista serbo sin dagli inizi del XIX secolo. Su questo dato di fatto, la Chiesa ortodossa serba degli ultimi vent’anni ha tentato incessantemente, e sempre con maggiore successo, di clericalizzare lo stato, con l’obiettivo di compattare e rendere inseparabili sfera religiosa, sociale e statale. Tale processo è germogliato alla fine degli anni ’80, quando la nuova classe dirigente di Milosevic pensò di sfruttare la Chiesa per incanalare il sentimento religioso dei suoi fedeli verso fini pratici ben più marcati, che attraverso sentimenti nazional-identitari di tutte le comunità serbe nei territori ex-jugoslavi rafforzassero la posizione politica e le scelte dell’establishment serbo.

Da parte sua, la Chiesa, dopo cinquant’anni di regime comunista, vide aprirsi uno spiraglio inatteso di possibilità per ritornare sulla scena secolare del paese: così, mentre Milosevic credeva di sfruttare il clero, il clero ritenne giunta l’ora di avvalersi dello Stato. Ne nacque un rapporto a doppio filo che ancora oggi, nonostante la rivoluzione democratica del 2000, condiziona palesemente le scelte del sistema Serbia: in un paese nel quale oltre il 90% dei cittadini si dichiara ortodosso (nonostante una fondamentale mancanza di conoscenza dei dogmi e della storia della propria religione), qualsiasi partito, di destra come di sinistra, è ben conscio che, dichiarando il proprio appoggio alla COS, non avrà certamente nulla da perdere in termini di voto, ma solo da guadagnare. In un’intervista per il quotidiano Danas del gennaio 2002, il patriarca Pavle, morto a inizio 2010, dichiara: “Riteniamo che il miglior rapporto tra Stato e Chiesa sia quello che già esisteva in precedenza, ossia una sinfonia – concordanza tra lo Stato, ossia la società, e la Chiesa.”

Nel concreto, questa scomoda posizione comporta una forte spinta alla clericalizzazione dello Stato, dinamica assolutamente antistorica ma tanto più pericolosa quando intentata in un paese che non ha, ormai a XXI secolo avviato, fatto della democrazia un pilastro stabile né abituato il proprio popolo a ritenerla un valore incontrovertibile e, soprattutto, salutare. In ciò sta la ragione per cui la COS assume un ruolo importante nell’impedimento per la Serbia di guadagnare posizioni filoeuropee e volgersi con serenità all’occidente: le parole più dure rivolte dal Sinodo e dagli alti prelati sono sempre state indirizzate contro l’Europa ed i valori da essa rappresentati. Isterici attacchi contro la democrazia come “demonocrazia”, contro la repubblica e a favore della monarchia dei Karadjordjevic, contro l’avvicinamento all’Unione Europea in quanto corruttrice, portatrice di falsi miti che annullerebbero l’animo e lo spirito serbo, sono frequenti e normali.

Viste le premesse fatte riguardo alla Chiesa ortodossa serba, è chiaro come la miseria, la povertà, il dissesto sociale e morale che attanagliano la Serbia non siano frutto delle guerre, ma di un pericoloso imbarbarimento dovuto, secondo il Sinodo serbo, ad un allontanamento dai valori ortodossi, e quindi dal seno di madre Chiesa. Le responsabilità, anche materiali, della Chiesa serba nei conflitti degli anni ’90 vengono rigorosamente taciute: l’appoggio morale dato dal Patriarca Pavle durante dieci anni di guerre fratricide non viene visto come criminale, ma ancor’oggi come necessario, giusto richiamo all’unità e alla difesa dello spirito serbo, attaccate da forze soverchianti. Nel gennaio 2001, in un’intervista al quotidiano belgradese Danas, Pavle ricordava: “La Chiesa durante tutta la sua storia, incluso il XX secolo, ha dovuto accantonare i suoi doveri principali, per attivarsi concretamente nella lotta per l’unità dei serbi, nella quale il sacerdote ha dovuto assumere anche il ruolo di maestro, giudice, e imbracciare il fucile per difendere se stesso e la propria famiglia.” E di preti in assetto da guerra, nella Bosnia degli anni ’90, rimangono svariate testimonianze.

Ancora, in una lettera dell’agosto 1991 indirizzata a Lord Carrington, il patriarca dice: “I serbi non possono convivere coi croati in nessuno stato, in nessuna Croazia”. Ed è forse per questo che soli due mesi più tardi, Zeljko RaznatovicArkan’ dichiara: “Il nostro comandante supremo è il patriarca Pavle.”

Lungimirante, sia per un giudizio sulla guerra in corso che sul ruolo della donna nella società moderna, è un passaggio del discorso del patriarca alla vigilia di Natale del 1995: “Molte madri, che non hanno voluto avere più di un figlio, oggi si strappano i capelli e piangono amaramente sui figli perduti in questi conflitti bellici, maledicendo spesso Dio e gli uomini, ma dimenticando al contempo di incolpare se stesse per non aver dato alla luce altri figli come consolazione.” Riguardo invece alla guerra in Kosovo, nell’aprile 1999 Pavle afferma: “È evidente che non c’erano altre vie. Così ora ci hanno costretti alla guerra. Per questo la nostra guerra è giusta, perché è difensiva. Non aggressiva, né di conquista.”

L’esercito, ovviamente, non può che essere favorevole a una tale concezione della Chiesa, come guida morale e spinta bellica per il popolo. Nel febbraio 2001, sulla rivista Ortodossia (Pravoslavlje), così un ufficiale in forze all’esercito jugoslavo riassume la situazione attuale: “Esiste un piano per coprire l’intera Serbia e Montenegro con una rete di sette. È un piano che parte da Occidente con il fine di far filtrare, in maniera accorta e pianificata, il male sul popolo serbo, come il Vladika Nikolaj ha ben capito: un genocidio spirituale per mezzo di numerose sette – protestanti, estremo orientali, sataniche”.

In qualsiasi ambito sociale, la Chiesa serba si pone non solo come freno, ma come vero motore anacronistico che tenta con tutte le sue forze di fermare un processo di democratizzazione e ammodernamento oramai conclusosi da tempo in tutti i principali paesi dell’Europa occidentale. Basti pensare alla concezione del ruolo femminile, per il quale la donna non gode, o almeno non dovrebbe godere degli stessi diritti dell’uomo, ma dovrebbe mostrarsi fedele, silenziosa compagna, madre di una numerosa prole (preferibilmente maschile) e custode del focolare domestico. Oppure il giudizio sugli omosessuali, visti come figli del Demonio, ed incarnazione della peggiore corruzione ed immiserimento morale che potesse colpire la Serbia. Il metropolita e arcivescovo di Cetinje, Amfilohije, così ha dichiarato l’11 ottobre 2010, il giorno dopo il primo gay pride della storia serba: “Che odore nauseabondo ha appestato le strade della capitale Belgrado. Un veleno, peggiore dell’uranio lasciato dalle bombe della NATO. Siate certi che è un segnale della rovina dei popoli cristiani. Dio saprà quando colpire con la sua frusta e con la sua rimostranza, ma già piano essa si prepara.”

Dal momento in cui la Chiesa si pone come entità etnocentrica, essa abbandona il proprio messaggio ecumenico e si secolarizza, divenendo automaticamente non rappresentanza di un Dio universale, di tutti, ma di una divinità settaria e chiusa. Non è una religione di scelta, ma di destino, per la quale ciò che conta non è lo spirito ma il sangue, non la fede ma le origini: un serbo non è del tutto serbo se non ortodosso, e così la Chiesa non può che spendersi fortemente nella difesa dell’Ortodossia, vista prima ancora che una delle storiche manifestazioni del Cristianesimo, religione di pace ed amore, vessillo di un popolo che per secoli si è sentito vittima: dei turchi, dei tedeschi, dei comunisti (percepiti oggi come altro rispetto alla volontà popolare della seconda metà del XX secolo), degli europei e degli americani. E che, come vittima, non può certamente avere compiuto opere di male di cui pentirsi, ma solo una giusta, essenziale, lotta per la sopravvivenza. Attraverso questo procedimento, la Chiesa ortodossa solca i sentieri del più becero nazionalismo serbo degli anni ’90, da essi non si discosta ed infine, tramite gli stessi, lotta per mantenere una posizione di forza riguardo alle decisioni della classe politica odierna, senza essersi mai trovata nella necessità di recidere o rinnegare i legami con il passato e con l’era di Milosevic.

 

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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