Si definisce una comunità, le si attribuiscono caratteristiche specifiche e, a furia di utilizzare termini come “noi” e “loro”, si instaurano stereotipi. Quando poi quella comunità ben definita trasborda nella nostra, prede dell’insicurezza identitaria ed economica (i tempi sono quelli che sono), puntiamo il dito alla ricerca di possibili colpevoli e adottiamo la soluzione più semplice: innalziamo mura, separiamo e segreghiamo.
Grossomodo è quello che è successo e succede in Slovacchia; categoria presa d’assalto, quella Rom. Un vortice xenofobo che ha influenzato l’atteggiamento politico slovacco e che il Cerd definisce come “diffidenza radicata che si manifesta nella costruzione dei muri anti-Rom”.
Il primo caso riportato dalla stampa internazionale è quello del 2009, quando una barriera in calcestruzzo lunga 150 metri venne sollevata nella cittadina di Ostrovany per un costo di 13.000 €. Seguono, nel 2010, le barriere innalzate a Trebišov e a Michalovce, a Prešov come a Plavecký Štvrtok. Nel settembre 2011 il comune di Vrútky solleva un altro muro per separare asilo nido e edifici residenziali da un’area abitata in prevalenza da Rom.
Quando però nel gennaio 2012 la situazione è sul punto di degenerare il governo di Iveta Radičová approva un programma per l’integrazione dei Rom, sviluppato con la collaborazione della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite (Undp). Programma che sarebbe dovuto giungere fino al 2020 e alla cui stesura aveva anche partecipato la società civile slovacca. Programma che comunque non avrebbe mai visto la luce. Eletto nell’aprile dello stesso anno, il nuovo governo presieduto da Robert Fico decide infatti di non concretizzare la strategia e prepara invece un nuovo programma di riforme in cui è la stessa Commissione Europea a individuare varie lacune, in particolare in materia di istruzione scolastica. La situazione non cambia di una virgola.
Nel 2013, a Košice, viene sollevato l’ennesimo muro. Questa volta interverrà repentinamente il Commissario europeo per l’istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù Androulla Vassiliou, inviando al comune della città una lettera per l’abbattimento del muro. La barriera viene così demolita, ma il fenomeno pare non essere scalfito.
In definitiva, l’associazione Errc (Centro europeo per i diritti dei Rom) parla di un numero di muri presenti su tutto il territorio che oscilla dagli 11 ai 14. La difficoltà nel presentare un numero specifico di barriere è data dall’inevitabile smentita delle autorità del Paese, spesso restie a riconoscere tali strutture come strumenti di segregazione. Da stupirsi c’è poco, poiché l’atteggiamento è ben radicato nella dirigenza slovacca. L’atto di edificare un muro può essere visto come l’ultimo atto, forse disperato e tragicamente logico, di una metodologia di governo che ha fallito a più riprese nella politica d’integrazione. Pensiero, questo mio, che tiene comunque da conto della giovane indipendenza politica di una Repubblica che solo negli ultimi anni ha assunto un profilo più europeo davanti a temi delicati, migrazione in primis. Un percorso ancora lungo che alle volte sembra sfociare in un clima di sostanziale immobilismo.
Il dibattito in materia Rom sembrerebbe dunque condannato alla stagnazione sennonché a vincere le presidenziali di quest’anno abbiamo visto l’indipendente Andrej Kiska, potenzialmente più aperto rispetto ai suoi predecessori alle necessità di questa minoranza.
Con una politica che punta all’integrazione, si tratta adesso di contrapporsi a quella tendenza segregazionista instauratasi, volutamente o meno, sotto i governi dell’attuale primo ministro Robert Fico. Una situazione a dir poco complicata se si tiene conto che in Slovacchia sono presenti più di 600 insediamenti rom, e che soltanto una piccola percentuale di popolazione, che si concentra a Bratislava, può essere definita benestante e integrata. Insediatosi questo 15 giugno, resta da vedere se l’uomo nuovo Kiska avrà la forza per opporsi alle correnti tradizionaliste.