Da BELGRADO – Che la capitale della Serbia rappresenti un punto nevralgico nella geopolitica europea, nonché il “ponte tra est e ovest”, è una caratteristica che si porta dietro da almeno un secolo: dal “rinascimento balcanico” di inizio novecento, fino alla Jugoslavia socialista, il cui non allineamento per tutta la guerra fredda assunse il compito di distensione dei rapporti tra i due blocchi, che a loro volta contribuirono affinché Belgrado rimanesse un partner fondamentale sia per l’occidente che per le repubbliche popolari.
Nonostante negli ultimi vent’anni Belgrado sia stata la capitale di 4 paesi diversi, e gli stessi rapporti transatlantici siano profondamente mutati, essa non ha perso la propria caratteristica e continua a rappresentare un attore chiave sia per l’integrazione europea sia per l’influenza di Mosca nella regione balcanica.
Questa dualità della politica estera serba oggi ritrova conferma nell’orientamento del governo di Aleksandar Vučić, intento a divenire membro dell’Unione Europea così come a custodire gelosamente i rapporti privilegiati con la Russia, che vanno ben oltre le affinità culturali e religiose e si consolidano piuttosto in diversi accordi di cooperazione economica e politica, che vanno intensificandosi sin dal 2000.
Le ultime due settimane hanno ulteriormente dimostrato quali siano le intenzioni della diplomazia serba. L’evento principale infatti è stata la visita a Belgrado del ministro degli affari esteri della Federazione Russa, Sergej Lavrov.
Mentre infatti i piani di allargamento di Bruxelles hanno come fine l’integrazione dell’ultimo paese dell’ansa del Danubio, che rappresenta una strategica via di comunicazione e di commercio, la diplomazia tra Serbia e i “fratelli” di Russia sembra concentrata su altrettanto importanti fattori commerciali. In particolare, Lavrov e il ministro degli esteri serbo, Ivica Dačić, hanno voluto confermare i successi degli accordi di Soči del maggio 2013, in virtù dei quali tra i due paesi vige un regime di libero scambio che abbatte il muro dei dazi doganali per il commercio di diverse materie prime e prodotti finiti. Per la limitata economia serba uno dei vantaggi maggiori di tale accordo è l’eliminazione dei dazi doganali per tutti quei prodotti fabbricati al 51% in Serbia ed esportati in Russia, e che mutualmente vale per quei prodotti al 51% russi indirizzati al mercato serbo.
Questa agevolazione commerciale rappresenta un fondamentale incentivo non solo per le imprese serbe ma soprattutto per tutte quelle aziende europee che delocalizzano la produzione in Serbia, come nel caso dello stabilimento Fiat di Kragujevac, che pur fabbricando un prodotto “italiano”, la 500L, lo presenta sul mercato come prodotto “made in Serbia” (almeno al 51%), aprendosi così all’immenso mercato russo a costi ridotti. Secondo i dati delle autorità doganali della Federazione Russa, infatti, in seguito a tale accordo gli scambi commerciali tra i due paesi sono aumentati del 15% e hanno raggiunto la cifra di due miliardi di dollari, lasciando intendere che tale trend sia in costante crescita
Un altro punto chiave della diplomazia “triangolare” tra Mosca, Belgrado e Bruxelles riguarda sicuramente il settore energetico, laddove questo si riassume in due parole: South Stream. Come noto, l’intera economia europea dipende largamente dal prezioso gas russo, e in virtù di questo monopolio energetico Mosca sta espandendo le proprie reti di gasdotti anche nella regione balcanica. Riguardo a South Stream, la Serbia rappresenta l’unico paese non membro dell’UE interessato dal passaggio dei gasdotti di Gazprom. Secondo il progetto, il punto di snodo della distribuzione di gas nella regione è la Bulgaria, alla quale ad inizio giugno è stata imposta dalla Commissione Europea l’interruzione dei lavori di costruzione del gasdotto in virtù del mancato rispetto del terzo pacchetto della politica energetica europea, per il quale produttore e distributore di energia devono essere due enti differenti. La Serbia, pur non essendo membro UE e dunque non vincolata da questa disposizione, è tenuta tuttavia, nel suo processo di adesione, ad adeguarsi agli standard dettati da Bruxelles in materia energetica.
In questo complicato quadro diplomatico, che intreccia Unione Europea, Serbia e Russia in affari energetici, istituzionali, commerciali e di cooperazione economica, si aggiunge la costituzione dell’Unione Euroasiatica tra Russia, Bielorussia e Kazakistan dello scorso 29 maggio, i cui principi affondano nell’unione doganale vigente tra i suddetti paesi.
Nonostante in occasione della visita a Belgrado lo stesso Lavrov abbia sostenuto che la Russia appoggia il percorso di Belgrado verso l’integrazione europea, un’altra visita istituzionale ha fatto presagire il coinvolgimento della Serbia nelle relazioni tra le ex repubbliche sovietiche: quella di Aleksandar Lukashenko. L’incontro tra il presidente bielorusso e quello serbo, Tomislav Nikolić, è avvenuto lo stesso giorno in cui il premier Vučić si recava dalla Merkel a Berlino ed è dunque simbolico della attuale “neutralità” della politica estera serba. Infatti, la Bielorussia si trova nella lista nera dell’Unione Europea e i paesi membri, cosi come quelli candidati come la Serbia, hanno imposto sanzioni al regime di Lukashenko a causa delle accuse di limitazione dei media e della libertà d’espressione.
Questa particolarità della politica estera di Belgrado, che sembrerebbe “stare con un piede in due scarpe”, rappresenta sia un vantaggio, che un potenziale allarme. Questa intensificazione “binaria” dei rapporti con entrambi i giganti economici che si contendono il continente avrà infatti il merito di accrescere le opportunità per il processo di modernizzazione, nel senso di infrastrutture e investimenti, della Serbia, ma allo stesso tempo potrebbe finire con uno sbilanciamento d’interessi tra questi due “contendenti”.
L’attuale situazione ucraina – sulla quale Belgrado si è significativamente mantenuta neutrale, a riconferma della sua dualità nelle relazioni internazionali in Europa – impone la considerazione del rischio che tale scenario di contesa di interessi del continente possa ripetersi, applicato al diverso contesto serbo. Qualora la Serbia dovesse continuare a godere delle conseguenze del proprio status di “ponte tra est e ovest”, questo dipenderà in gran parte dal perseverare del bilanciamento di interessi tra Unione Europea e Federazione Russa.
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Molto spesso le interpretazioni più semplici sono giudicate “rozze” ma alla lunga risultano più calzanti.
La sofisticata ipotesi di un ménage à trois è molto affascinante, ma forse un semplice “sfilamento” minimizzando i danni risulta un’interpretazione più terra terra, ma più realistica.
Quando il gennaio scorso sono iniziati i negoziati con l’UE certo la Serbia non poteva sbattere la porta in faccia alla Russia almeno per decenza, se non per eleganza. Detto questo non potrà tenere a lungo il piede in due scarpe, e sicuramente la convenienza complessiva spinge verso l’UE, visto che nella regione tutti sono andati verso l’Europa, mentre nessuno ha colto le favolose e favorevoli “convenienze” offerte dall’Unione Eurasiatica.
D’altronde la politica di adesione all’EU necessariamente passerà per una qualche sorte di appeasement della questione kosovara, di qui la diminuzione di interesse per l’unico alleato in quel conflitto.
L’appoggio serbo alla Russia nella questione del South Stream di fatto risulta di facciata e privo di qualsiasi conseguenza pratica: fin che il blocco bulgaro terrà, cosa costa dire che è un bel progetto?