Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato.
Tempo fa conobbi una ragazza che mi lasciò una buona – soprattutto perché inattesa – impressione iniziale, in quanto discorrendo di qualche situazione assurda e illogica occorsami, la definì “kafkiana”. L’aggettivo mi sembrava non solo oltremodo calzante, ma rivelatore di una certa sua dimestichezza con la grande letteratura, dettaglio che sempre mi affascina in una donna. Quando però, nei giorni a seguire, la sentii ripetere quel rigido aggettivo in almeno un altro paio d’occasioni, cominciai a temere che ne stesse abusando. Un “tramonto kafkiano” fu la prova definitiva che la ragazza non aveva la più pallida idea di cosa stesse dicendo.
Non ho letto tutti i romanzi dello scrittore di Praga, ma tra i pochi Il processo è senz’altro quello che meglio racchiude il senso, o forse non-senso dell’esistenza, dei rapporti umani e di quella macchina statale e burocratica, che nella sua suprema impersonalità così bene simboleggia l’impietosa inesorabilità del destino. Romanzo postumo (pubblicato, come tutte le opere postume di Kafka, contro la sua volontà) e incompiuto (ma, sempre a detta dell’autore, già con tutti i tratti decisivi che lo dovevano costituire), Il processo si apre con un non meglio motivato arresto ai danni dell’anonimo K., procuratore di banca, in un inquietante incipit sospeso tra farsa e sogno, che pare facesse sbellicare Kafka nel mentre leggeva il primo capitolo agli amici raccolti.
Senza alcuna imputazione precisa, senza accusatori né giudici certi, in una vorticosa giostra di contraddizioni, di verosimile, simile, apparente, come se… l’irreale trappola del sistema ora avvolge ora scioglie Josef K., come il gatto col topo, e l’intero mondo sembra capovolgersi e sovvertirsi in ogni aspetto della sua quotidianità.
I personaggi sono grotteschi, animali, gli ambienti angusti e insalubri, immancabilmente privi di luce e aria: soffitte polverose, folle strette in stanze tanto basse da dover incastrare cuscini fra teste e soffitti, buchi sul pavimento in cui sprofondano gambe verso i piani di sotto, ripostigli delle scope nei quali guardie corrotte vengono frustate a oltranza, porte comunicanti sbarrate da letti e giudici che li scavalcano per entrare e uscire, poche scene d’esterni e quelle poche sotto un’acqua incessante… Calarsi nel libro è come scendere nel profondo di un inferno moderno, in un’angoscia claustrofobica che attanaglia da ogni dove, resa orrenda prima ancora che dall’ingiustizia di un processo farsesco, dalla consapevolezza di un ordine illogico ed insensibile, che, pare avvertirci Kafka, non si può combattere in alcun modo: non con la ragione, non con la forza, non col sentimento e neppure con la rabbia, forse anche la speranza è vana, la fortuna di certo un mito. Siamo tutti destinati a soccombere, soli e inetti, come quel vecchio che, dopo aver atteso tutta la vita il permesso di varcare le porte della Legge, scopre in punto di morte che quell’ingresso attendeva lui soltanto, eppure ormai rimarrà invalicato.
La scrittura allucinante ed alienante di Kafka è poesia pura, la moderna rivisitazione dei gironi danteschi, qui in terra, e non si comprende nemmeno se sono frutto dell’umana follia o trascendenti. Tutti siamo alfine, vittime e carnefici, legati stretti ai nostri ruoli dal medesimo filo, che da nessuna parte si dipana e a nessun luogo conduce. Se non forse al chiaro di luna, e ad un coltellaccio per scavare la nostra innocente vergogna d’esser solo uomini, vittime sacrificali sul ridicolo palcoscenico della vita.