Il 4 maggio scorso è ricorso il trentaquattresimo anniversario della morte di Josip Broz Tito (1892-1980), padre e anche padrone di quel paese, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, che proprio dopo la morte del Maresciallo cominciò il proprio collasso, fino a cessare di esistere nel 1992, in preda al sangue e alla barbarie nazionalista.
Nella giornata di domenica 4 maggio, centinaia di “jugoslavi” provenienti dalle ex-repubbliche si sono recati a Belgrado nonostante la forte pioggia presso la Kuća Cveća (Casa dei Fiori), il mausoleo che ospita le spoglie di Tito all’interno del complesso del Museo di Storia della Jugoslavia, per ricordare l’uomo che forse più di tutti contribuì, nel bene e nel male, alla sorte degli slavi del sud.
Alle consuete cerimonie di ricordo per il Maresciallo erano presenti molte associazioni cosiddette “nostalgiche”, il cui principale obiettivo è quello di mantenere viva la memoria circa il ruolo storico del presidente a vita della Jugoslavia. Questa nostalgia per il regime di Tito, che ha dato vita a quel fenomeno conosciuto come “jugonostalgija”, viene spesso tradotta in modo superficiale come il rimpianto per un regime autoritario, con i difetti e gli errori che in esso convivevano, se non addirittura in “titoismo acritico”, mentre più in generale andrebbe interpretato come il ricordo condiviso di un tempo in cui un certo benessere sociale sembrava esistere nonostante le limitazioni tipiche dei regimi governati da un partito solo.
La figura di Tito ha mantenuto – nonostante la fine del socialismo e la violenta disintegrazione di quel paese di cui egli fu l’artefice principale – una notevole dose di carisma tra i popoli che costituivano la Jugoslavia, sebbene sia stato anch’egli sottoposto a severi giudizi storici, se non addirittura a tentativi di revisionismo circa il suo ruolo.
Mentre da un lato certa opinione pubblica rivede in Tito niente di più che un dittatore il cui unico scopo era mantenere il potere nelle proprie mani; dall’altro lato, molti jugoslavi sono convinti che quella di Tito sia stata un’esperienza unica sia durante la seconda guerra mondiale – in virtù della lotta partigiana che portò alla vittoria sull’invasore nazi-fascista e i vari regimi collaborazionisti – che durante la guerra fredda, quando la Jugoslavia sviluppò in maniera autonoma e unica nel continente europeo la propria strada verso il socialismo, ovvero l’autogestione operaia, e si estraniò da entrambi i blocchi per intraprendere la “terza via”, fondando il Movimento dei non-allineati nel 1961.
Queste particolarità jugoslave aumentarono la popolarità del Maresciallo sul piano internazionale, dove veniva visto come un leader carismatico in grado di dialogare sia col blocco sovietico che con le potenze occidentali, ed è proprio grazie a questa caratteristica che la Jugoslavia consolidò il proprio ruolo di “ponte tra est e ovest”, in grado dunque di favorire un certo clima di distensione durante la guerra fredda.
Il carisma personale di Tito fu manifesto il giorno del suo funerale, l’8 maggio 1980, quando accorsero le delegazioni di 127 paesi su 154 allora riconosciuti dalle Nazioni Unite, e rappresenta tuttora, in termini di partecipazione, il più grande funerale di un capo di stato della storia dell’umanità.
Per molti analisti contemporanei, il funerale di Tito può essere visto come il funerale della Jugoslavia, in virtù della crisi economica e quindi politica che seguì negli anni successivi. Una crisi che in breve tempo divenne istituzionale e che all’interno del paese venne vista da alcune elite “intellettuali” come conseguenza della politica del Maresciallo. In breve tempo infatti, approfittando del cambio generazionale, le nuove leadership repubblicane sfruttarono la chiave nazionalista, per anni sopita dal ruolo di arbitro di Tito, per sfruttare un malcontento economico e politico che alla fine degli anni 80 sembrava ormai insopportabile.
Da tutte le parti, alla figura di Tito venivano infatti indirizzate diverse accuse di carattere sia politico che nazionale. Per quanto riguarda l’aspetto politico, venne rimproverato a Tito di non essere stato in grado di garantire un pluralismo politico e di aver voluto conservare ad ogni costo il monopolio della Lega dei Comunisti Jugoslavi, al cui interno cominciarono dunque a svilupparsi diverse correnti più o meno riformatrici. Inoltre, lo stesso “orgoglio jugoslavo”, l’autogestione, venne accusato di essere inefficace e non in grado di affrontare i problemi economici cui la federazione jugoslava andava incontro: questo comportò la frattura tra conservatori che restavano fedeli all’ortodossia dell’autogestione; e riformatori, che volevano invece l’abolizione se non una riforma in direzione di un più libero mercato di tale sistema. Infine, contro Tito vengono rivolte accuse di crimini, specie per il periodo che va dalla rottura con Stalin nel 1948 fino al 1953, quando una certa distensione con l’Unione Sovietica venne ristabilita dopo la morte di Stalin. In questo periodo, diversi storici rimproverano a Tito il fatto di aver combattuto gli oppositori politici, stalinisti in primis, attraverso metodi stalinisti, come ad esempio il campo di lavoro di Goli Otok (isola calva).
Dal punto di vista nazionale invece, a Tito viene rimproverato di aver sopito i veri interessi nazionali, del popolo serbo per esempio. Già nel 1986 l’Accademia Serba di Arte e Scienza emanò un “Memorandum” in cui si rivendicava il diritto a una Serbia unitaria, in quanto de facto “mutilata” dall’autonomia di Vojvodina e soprattutto Kosovo-Metochia, in cui era in atto un “genocidio nei confronti del popolo serbo”, così come venne descritto dai redattori di quello che è considerato un capostipite del nazionalismo serbo, o perlomeno il maggior “contributo intellettuale” per l’inizio della dissoluzione jugoslava.
Ciononostante, queste e altre questioni sono semplicemente state analizzate sotto un’ottica diversa, sia dopo la morte di Tito che dopo la morte della stessa Jugoslavia.
Le responsabilità oggettive del vecchio Maresciallo andrebbero piuttosto rintracciate nella sua intransigenza verso un sistema multipartitico, in quanto era convinto che ciò “avrebbe avuto come conseguenza la nascita a catena di partiti etnonazionali” – come puntualmente accadde dall’89 in poi – ; e nell’incapacità di tramandare il proprio potere a delle elite che non si rivelassero invece corrotte e intenzionate a spartirsi il suo lascito.
Infine, in occasione di commemorazioni come l’anniversario della morte di Tito, tra i nostalgici presenti alla Kuća Cveća, sembra ormai opinione diffusa che il più grande errore del Maresciallo sia stato proprio quello di averli abbandonati morendo.
Druže Tito, mi ti se kunemo… Il Maresciallo è stato uno degli uomini politici più illuminati del ‘900.
Commento pochettino eccessivo, Aleksandar!
Scrivendo “Le responsabilità oggettive del vecchio Maresciallo andrebbero piuttosto rintracciate nella sua intransigenza verso un sistema multipartitico, in quanto era convinto che ciò “avrebbe avuto come conseguenza la nascita a catena di partiti etnonazionali” – come puntualmente accadde dall’89 in poi -” ammetti il fallimento di tale politica di intrasigenza, o sbaglio? Egli ha fatto X, coll’intento di evitare Y. Ma storicamente egli ha fatto X, producendo Y.