Il ritorno degli jugoslavi, una minoranza sovversiva

Lo scorso 29 novembre migliaia di cittadini degli stati post-jugoslavi hanno festeggiato quella che era la festa nazionale della Jugoslavia socialista. In Serbia più di ottantamila persone si dichiarano ad oggi di “nazionalità jugoslava” rifiutando di definirsi serbi o membri di qualsiasi altra comunità nazionale. A Jajce, in Bosnia, si sono deposti fiori e ghirlande sull’altare di una patria metaforica. Eppure questi “jugoslavi” rappresentano un quarto della popolazione in Serbia, una “minoranza” rilevante. In Vojvodina, ci dice il quotidiano belgradese Danas, sono circa in 50 mila, ben 22 mila nella capitale.

Certo in una regione come la Vojvodina, così ricca di diversità, il termine onnicomprensivo “jugoslavo” è anche il più semplice per definirsi da parte di una comunità unita nella differenza. Ma altrove? In Serbia gli “jugoslavi” chiedono di essere ufficialmente riconosciuti come minoranza, a Belgrado c’è un ministero apposta per simili questioni: la risposta è stata che “minoranza è quella che ha specificità e comunanza di lingua, religione, simboli nazionali e una patria al di fuori del Paese in cui si trova a vivere”. La patria jugoslavia è invece “dentro“.

Mikloš Olajoš Nađ, uno dei promotori del movimento per i diritti degli “jugoslavi” spiega che non s’intende creare una nazione artificiale, poiché la Jugoslavia non è un artificio ma una radice perduta di cui restano i frutti.

Il tema non va sottovalutato: l’identità è qualcosa di sovradeterminato, obbedisce a regole prescritte, esiste un’autorità politica che ha il diritto di sancirla de iure? O si tratta di una questione privata, intima, sentimentale, una scelta di appartenenza che può anche andare oltre al “sangue”? E’ un tema di stretta attualità se lo rovesciamo nel contesto italico e pensiamo a come spesso l’identità “italiana” degli stranieri immigrati sia negata dalla politica come dagli italiani tout court. Se come dice la moderna antropologia*: “l’identità è una scelta” allora le resistenze di Belgrado hanno poco senso. Ne hanno però se il riconoscimento politico di quella minoranza sentimentale comporta agevolazioni fiscali o legali. Altrimenti i cittadini di Atlantide domani potrebbero reclamare identico trattamento.

Certo l’identità jugoslava è il frutto di una operazione politica, condotta fin dal regno Shs (dei Serbi, Croati e Sloveni) e poi rafforzata dal socialismo titino. La storia politica, che ha imposto quell’identità, ora la rifiuta come anacronistica. Gli jugoslavi nascono quindi con la creazione della “Jugoslavia”, nel 1929, e cominciano ad esistere nei successivi censimenti che vedono crescere, alla domanda: “di quale nazionalità sei“, la risposta: “jugoslava“.

Nel 1981 il 36% degli jugoslavi censiti si trovava in Serbia, è il dato più alto nella regione. Poi il numero è andato calando con l’affermarsi del nazionalismo.

Oggi quello dell’identità “jugoslava” rischia persino di diventare un tema sovversivo: non aderire a un’entità statale sulla base dell’appartenenza nazionale, di fatto saltando a piè pari anche l’idea di multiculturalismo, può suonare come eresia alle orecchie di molti, non solo nei Balcani. Già, poiché il concetto di identità “jugoslava” è sovrannazionale, raccoglie in sé le identità delle varie popolazioni, non le rifiuta, ma le mette sotto un comune cappello. Qualcuno potrebbe obiettare che in fondo è solo “jugonostalgia“, un rimpianto del passato, del “si stava meglio quando si stava peggio” da parte di chi non ha saputo adattarsi al cambiamento. Può essere. Ma può anche essere un’altra cosa, poiché l’identità “jugoslava” è una convergenza di punti comuni e non un’affermazione delle differenze. Un’identità inclusiva, insomma, forse esportabile dal microsistema balcanico al macrosistema europeo.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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