BOSNIA: I plenum non hanno bisogno di riconoscimento internazionale

Se alle proteste in Bosnia-Erzegovina dell’estate scorsa aveva fatto seguito un diffuso senso di frustrazione e di rabbia, le manifestazioni di febbraio, dopo un inizio violento, sembrano aver preso una piega diversa. Alla bebolucija va riconosciuta la capacità di aver mobilitato per la prima volta dal dopoguerra migliaia di persone che a Sarajevo hanno occupato la piazza di fronte al Parlamento per ben venticinque giorni, ma anche la debolezza di non aver saputo canalizzare l’energia della piazza trasformandola in proposte concrete in grado di sopravvivere al successo tangibile, cioè la ripresa dell’emissione dei numeri di identificazione personale.

La capacità propositiva della bebolucija era stata indebolita dai vari tentativi di appropriazione della protesta da parte di gruppi nazionalisti e degli stessi soggetti, tra cui ONG e partiti politici, a cui era stato chiesto di farsi da parte per evitare una strumentalizzazione delle proteste. Riferendosi alle manifestazioni di luglio, alcuni parlarono di occasione persa, altri di un primo importante passo verso una riappropriazione non solo dello spazio pubblico, ma anche della soggettività politica da parte dei cittadini bosniaci.

Dal grande caos alle assemblee generali

Questa volta lo scenario appare diverso, come se la rabbia e la frustrazione covate da luglio scorso si fossero trasformate dapprima in violenza e poi in energia costruttiva. Guardando alle piazze bosniache a otto mesi dalle prime proteste civiche, appare evidente che i cittadini sono riusciti ad elaborare delle proposte concrete costruendo sul “grande caos” della bebolucija.

La mancanza di una struttura gerarchica si è trasformata da punto debole in risorsa. In più di tredici città sono state organizzate delle assemblee generali dei cittadini, i cosiddetti plenum, a cui i singoli partecipano su base individuale e volontaria: un modello a metà strada tra l’esperienza dei social forum nati a Porto Alegre e le assemblee modello Occupy. I plenum sono organizzati in sessioni regolari e le proposte articolate dai diversi gruppi di lavoro riguardano temi che vanno dalla revisione del processo di privatizzazione delle fabbriche alle politiche sociali.

Perché i plenum non hanno bisogno di legittimazione dall’alto

Nell’attesa del primo forum nazionale dei plenums, molti intellettuali hanno firmato lettere a supporto delle proteste bosniache. In una di questi appelli, pubblicato sul Guardian, 130 tra accademici e intellettuali da tutto il mondo hanno invitato la comunità internazionale, a cui la lettera è indirizzata, a “riconoscere i plenum e le assemblee civiche come espressioni legittime della volontà politica dei cittadini bosniaci”.

L’invito alla legittimazione dall’alto dei plenum riecheggia quel paternalismo che contraddistingue chi si riferisce alla Bosnia-Erzegovina come ad una terra “madida di odi per la guerra”, i cui abitanti non sarebbero in grado di gestire il paese da sé a causa di “antichi odi ancestrali”. Invitando la comunità internazionale a riconoscere i plenum si dimentica il loro carattere principale, quello di essere un laboratorio di democrazia diretta nato su iniziativa spontanea dei cittadini. Si bypassano così i soggetti che a queste assemblee hanno dato vita, ribadendo ancora una volta che l’ultima parola sul futuro della Bosnia-Erzegovina non spetta a chi ci vive, ma ai vari attori internazionali che in vent’anni di presenza sul territorio non hanno saputo rispondere alle istanze avanzate dalla cittadinanza.

Attraverso i plenum, i cittadini bosniaci hanno reclamato il diritto a decidere del loro futuro e a respingere quella classe politica da cui non si sentono rappresentati. L’hanno fatto a luglio così come a febbraio. Chiamare in causa per l’ennesima volta la comunità internazionale affinché riconosca le volontà espresse dai cittadini bosniaci li depriva della loro sovranità e li relega a soggetti passivi, anche quando le proposte che avanzano assumono contorni concreti. Come le tante assemblee spontanee nate nelle piazze d’Europa negli ultimi anni, anche i plenum bosniaci non hanno bisogno di essere formalmente riconosciuti dall’alto: in quanto forme di democrazia diretta si legittimano da sé.

Foto: gasbo.it

Chi è Chiara Milan

Assegnista di ricerca presso la Scuola Normale Superiore, dottorato in Scienze politiche e sociali presso l'Istituto Universitario Europeo di Fiesole (Firenze). Si occupa di ricerca sulla società civile e i movimenti sociali nell'Est Europa, e di rifugiati lunga la rotta balcanica.

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Un commento

  1. Ringrazio il portale per le numerose notizie, per la copertura a temi non trattati dal mainstream e per la difficoltà di mantenere in vita forme di giornalismo indipendente. Posso però permettermi di muovere una critica?
    Trovo che questo articolo affronti il problema in modo un po’ strabico. L’appello degli accademici non vuole promuovere nessun paternalismo, a mio avviso. Semmai lancia una provocazione significativa. E cioé dice alla comunità internazionale (quella che si è fatta andare bene sinora lo stato-fantoccio e gli anti-democratici meccanismi scritti a Dayton): guarda che c’è un popolo che si auto-organizza e bisogna ascoltarlo, a prescindere dagli esistenti organi eletti secondo principi rappresentativi che, negli stessi plenum, vengono messi in discussione. E aggiunge il tempo del “divide et impera” sta finendo.
    Io non penso che il riconoscimento della comunità internazionale nel 1936 delle comuni agricole dell’Aragona sarebbe stato ritenuto un atto di paternalismo da parte degli anarchici iberici.
    In ogni caso ancora grazie per il prezioso lavoro di informazione.
    Cordialmente,
    Marco Meotto

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