(Q-code magazine) LISBONA – Vacche grasse o vacche magre, per il patrimonio culturale portoghese son sempre tempi duri. Negli anni delle grandi opere pubbliche a Lisbona, metropolitana e mega-parcheggi sotterranei non hanno esitato ad “asfaltare” alcuni di quei ritrovamenti casuali che nel sottosuolo delle città antiche sono quasi inevitabili.
Ancora più indietro nel tempo, si narra che, nei difficili anni della Seconda Guerra mondiale, Salazar distruggesse film per vendere nitrato d’argento ai nazisti, ma la storia è avvolta nell’alone della leggenda. Nel 1995 invece, se lo ricordano tutti, ci volle un accampamento degli alunni del liceo di Vila Nova de Foz Côa per bloccare la costruzione di un lago artificiale destinato alla produzione di energia idroelettrica. Avrebbe affogato per sempre il complesso paleolitico d’arte rupestre all’aperto più grande d’Europa.
La campagna fu talmente contagiosa che i portoghesi si divisero fra tifosi delle incisioni rupestri e quelli per cui era semplicemente assurdo fermare il progresso davanti a degli scarabocchi sulla pietra. Vinsero i primi, e nacque l’attuale Parco Archeologico della Valle del Côa, oggi minacciato, come d’altronde tutti i musei, dai recenti tagli della troika.
Un misto di entusiasmo e indignazione simile ha destato la recente notizia che il governo portoghese avrebbe messo all’asta 85 opere dell’artista catalano Joan Miró. I quadri erano già a Londra, da Christie’s, e sarebbero stati venduti fra il 4 e il 5 febbraio, se un gruppo di deputati socialisti non avesse fatto ricorso.
A essere precisi, il Tar di Lisbona aveva respinto la richiesta, dichiarandosi incompetente. Ma nella sentenza descriveva come illecito il procedimento adottato dal ministero per portare all’estero le opere, avallando così un parere espresso dalla sovrintendenza al Patrimonio, la cui direttrice, fra l’altro, già da tempo in rotta di collisione con il governo, è stata in poche ore sostituita. Tanta confusione è bastata comunque a convincere la casa d’aste che non c’era la serenità necessaria per procedere, quindi ha preso la decisione unilaterale di rispedire tutto al mittente. Ora potrebbe chiedere un indennizzo di 5 milioni di euro.
A generare tante proteste fra i portoghesi (cui va però aggiunta l’ultima rivelazione del settimanale Expresso, secondo cui furono i socialisti oggi indignati i primi ad aprire trattative con le case d’aste) non c’è semplice amor dell’arte, né il rigetto istintivo della triste prospettiva di doversi vendere gli ori di casa per pagare i debiti. A toccare certi nervi scoperti c’è tutto l’imbroglio che sta dietro l’ingresso in Portogallo di opere la cui valutazione già oscilla, secondo le fonti, tra gli 80 e i 150 milioni di euro.
Appartenevano a una banca privata, il Banco Português de Negócios (BPN), che le aveva comprate in blocco all’imprenditore giapponese Kazumasa Katsuta, il maggior collezionista mondiale del pittore catalano (cliente della vedova di Matisse, per anni agente di Miró negli Stati Uniti).
Già qui, però, ci sono due versioni che non collimano: secondo quella più accreditata il BPN, con l’acquisto, avrebbe fatto un investimento da 36 milioni di euro; per altri, avrebbe messo mano sui Miró come garanzia di debiti inevasi. Sta di fatto che la gestione stessa di questa banca, ancor prima della crisi mondiale, faceva acqua da tutte le parti e, per salvarla dal fallimento, il governo socialista di Sócrates ne deliberò nel 2008 una discussa nazionalizzazione, iniettando subito una tranche di 700 milioni di euro, mentre la magistratura apriva un’inchiesta in cui sono tuttora coinvolti diversi grossi nomi della finanza lusitana, dall’ex governatore della Banca del Portogallo fino a manager dell’entourage del presidente della Repubblica.
Qualche anno dopo, già con il governo Passos Coelho immerso fino al collo nell’austerity, il BPN ripulito viene venduto per 40 milioni a una società di capitali angolani, mentre i fondi tossici restano allo Stato, che in quel pozzo ha continuato a versare diversi miliardi di euro.
In mezzo a tanti fondi tossici, scava e scava, vien fuori la bellezza, l’estetica, l’arte, che da sempre fiorisce nei campi concimati con lo “sterco del diavolo”. Così l’opinione pubblica portoghese si consola pensando di avere una collezione unica nel suo genere (se si esclude ovviamente quella della Fondazione Miró, a Barcellona) e decide di non mollare l’osso, almeno quello. Eppure qui quasi nessuno ha mai visto finora un quadro, un disegno, una scultura fra gli 85 pezzi in questione. Solo qualche foto, scattata nei giorni scorsi nelle gallerie di Christie’s e pubblicata sui giornali. Li conoscono meglio a New York, dove sono già stati esposti nel 2009, al MoMa, per poi tornare silenziosamente nel buio di un caveau.
Intanto Pedro Passos Coelho ha già fatto sapere che la battaglia con l’opposizione non è chiusa e i quadri saranno venduti. È quasi ovvio che al premier ragioniere, più che l’incanto dell’arte, interessi l’arte all’incanto e i suoi proventi immediati.
Eppure, proprio ora che la Corte dei conti italiana fa causa a Standard & Poor’s per non aver incluso il patrimonio artistico e immateriale nella valutazione dell’affidabilità finanziaria di un Paese, e che lo stesso Passos ha deciso di scaricare S&P e non rinnovargli il contratto per i servizi di rating del debito pubblico, chissà che non si convinca pure a puntare su questa collezione quasi ignota e già famosa. Se ha fatto il giro del mondo la notizia dell’asta mancata, potrebbe farlo anche quella di un piccolo Paese indebitato che alza la testa ed espone i suoi tesori.