Dopo la dichiarazione di indipendenza del 1991, si è posto in Estonia un problema di nazionalità. Accanto, infatti, agli estoni che avevano da sempre abitato nella loro terra natale, si trovavano decine di migliaia di abitanti di lingua russa, che si erano lì trasferiti ai tempi dell’Unione Sovietica, attraverso il processo di russificazione introdotto sin dai tempi di Stalin.
Una questione apparsa fin da subito rilevante agli occhi del neonato governo estone, che, al fine di ristabilire la propria sovranità e di recuperare quell’identità linguistica e culturale fortemente minata durante il periodo sovietico, sotto la spinta anche di forze nazionaliste, adottò il principio dello “ius sanguinis”, ossia solo gli individui residenti in Estonia prima della seconda guerra mondiale e i loro discendenti potevano ottenere automaticamente la cittadinanza estone.
Questa decisione, che trovava le sue basi legali ed ideologiche nella continuazione “de iure” dello stato estone prima dell’occupazione del 1940, da un lato rafforzò lo spirito di identità nazionale del popolo baltico, ma dall’altro impedì di fatto l’integrazione con i russofoni, i quali si ritrovarono improvvisamente stranieri in un territorio dove avevano vissuto e lavorato per anni. La stragrande maggioranza di loro, infatti, aveva mantenuto la propria identità culturale e continuato a parlare il russo, senza conoscere minimamente l’estone, essendo appunto il russo la lingua ufficiale fino al 1991. Elemento questo che rese impossibile per molti russofoni anche l’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione, dovendo per ottenerla superare un esame di lingua e cultura estone, considerato troppo difficile dai partecipanti alle prove.
Senza più nessuna possibilità legale di utilizzare la propria lingua di origine, anche nelle zone del Paese a maggioranza russa, e senza cittadinanza, fattore che comportò in diversi casi la perdita del posto di lavoro (emblematico fu quanto successo nel 1999 a trecento poliziotti di origine russa che persero il proprio impiego perché non riuscirono a passare l’esame di lingua), ai russofoni furono negati anche i diritti civili alla proprietà ed all’elettorato sia attivo sia passivo nelle elezioni politiche, seppur mantenendo il diritto d’elettorato passivo nelle consultazioni amministrative.
Si è venuto, dunque, a creare un “esercito” di non-cittadini, persone che non possiedono più la cittadinanza sovietica, in quanto non più esistente, e che contemporaneamente non riescono ad ottenere quella estone. Privi sia del passaporto russo, sia di quello della repubblica baltica, a questi non-cittadini il governo ha deciso di consegnare dei passaporti grigi [di residenti di lungo periodo, ndr], che in sostanza non li rende né carne né pesce, rifiutando la proposta di Mosca di affidar loro il doppio passaporto.
Ma ultimamente la situazione per i possessori di passaporto grigio sta un po’ migliorando. Nel 2007, infatti, con l’entrata dell’Estonia nello spazio Schengen, è stato riconosciuto a tutti i residenti, indipendentemente dalla loro cittadinanza, la libera circolazione in tutta l’Unione europea; in più l’anno successivo il Cremlino ha optato per autorizzare l’ingresso di queste persone in Russia senza necessità di visto. Inoltre, non essendo né cittadini russi né estoni, i giovani possessori di passaporto grigio non devono prestare servizio militare, in quanto nessuno dei due paesi impone l’obbligo di leva per i non cittadini.
Quella dei russofoni in Estonia è una problematica profonda e con diverse sfaccettature, che, però, sembra destinata a terminare presto, almeno giuridicamente: il governo estone ha, infatti, riconosciuto lo “ius soli”, ossia l’acquisizione della cittadinanza nel luogo in cui si nasce, per gli individui nati in Estonia dopo il 24 febbraio 1992 anche da genitori russi. Con l’auspicio, quindi, che le nuove generazioni riescano davvero a consegnare al passato queste diatribe ed a vivere in una società integrata.