Il primo novembre 1993, quando entrò in vigore il Trattato di Maastricht e nacque ufficialmente l’Unione europea, inglobando le tre preesistenti Comunità europee (la Comunità economica, la Ceca e l’Euratom), il quartiere europeo di Bruxelles era deserto. I burocrati della Commissione e del Consiglio erano in ferie, per la festività di ognissanti. Il due novembre, rientrarono al lavoro sapendo di giocare ad un gioco con regole nuove.
Oggi non sono tempi buoni per l’immagine dell’Europa, offuscata dalla crisi economica e dalle sirene dei populisti che da dieci anni ormai dicono “è tutta colpa dell’euro”. Ma forse varrebbe la pena di dedicare un pensiero a quel momento di vent’anni fa.
Il Trattato di Maastricht fu il frutto di “un illustre negoziato intergovernativo”, come lo definirebbe l’accademico americano Andrew Moravcsik. Dopo l’Atto Unico Europeo del 1986 e il suo “Orizzonte 1992” di unificazione dei mercati nazionali in un vero mercato unico europeo tramite il mutuo riconoscimento degli standard nazionali (la formula Dassonville/Cassis De Dijon), gli allora dodici stati membri si trovarono a negoziare la rifondazione del progetto di integrazione europea in uno scenario internazionale completamente mutato. La guerra fredda era finita, la Russia era ormai una tigre di carta e lo sarebbe rimasta per tutti gli anni ’90. La riunificazione tedesca, la stabilizzazione dell’Europa centro-orientale, con la prospettiva finale dell’allargamento a est, e l’approfondimento della cooperazione europea erano all’ordine del giorno. Quando le delegazioni si riunirono a Maastricht il 9 e 10 dicembre 1991, i contorni del nuovo progetto avevano preso forma.
Il risultato fu necessariamente un compromesso. Da una parte, lo spettro delle competenze delle istituzioni europee venne ampliato: al ‘primo pilastro’ della Comunità economica, governata dalle istituzioni comunitarie (Commissione, Parlamento, Consiglio, Corte di giustizia) vennero affiancati i due nuovi pilastri della cooperazione su Giustizia e Affari interni (JHA) – collegato alla caduta delle frontiere fisiche in Europa con l’accordo di Schengen – e su Politica estera e di sicurezza comune (CFSP). Dall’altra parte, questi due nuovi pilastri restavano sotto la competenza esclusiva delle istituzioni intergovernative, molto più legate alla composizione degli interessi nazionali che non ad un interesse comune europeo. Sopra ai tre pilastri, a fare da frontone ad un immaginario tempio greco e tenere insieme il tutto, stava l’Unione europea. Fu negli anni successivi, coi trattati di Amsterdam (1997) e Nizza (2000) che il pilastro comunitario, piano piano, inglobò anche gli altri due, fino alla razionalizzazione finale apportata a Lisbona (2009): oggi solo la politica estera fa eccezione rispetto ad un sistema politico in cui la Commissione ha il monopolio dell’iniziativa mentre il Parlamento (direttamente eletto) e il Consiglio (espressione dei governi eletti a livello nazionale) siedono su un piano di parità, come camera bassa e camera alta, nel processo legislativo europeo.
L’aspetto forse più famoso di Maastricht e più richiamato nei giornali riguarda i criteri economici volti a certificare che un paese fosse pronto ad imbarcarsi con gli altri nell’impresa dell’unificazione monetaria, quinto stadio dell’integrazione economica. Il rispetto dei “criteri di Maastricht” permise a 11 paesi, tra cui l’Italia, di far parte del nucleo originario dell’euro, i cui cambi vennero fissati nel 1998 e che iniziò a circolare nel 2001.
Ma il trattato di Maastricht non fu solo istituzioni e unione monetaria. Un aspetto rilevante, anche se forse preso alla leggera a suo tempo, fu l’introduzione di una cittadinanza europea, superiore e complementare alle cittadinanze nazionali. Da allora, i diritti previsti dai trattati non vengono all’individuo in quanto entità economica (lavoratore) ma in sè, in quanto cittadino di uno stato membro. Da ciò derivò una serie di conseguenze rilevanti per la vita di ciascuno di noi: dal divieto generalizzato di discriminazione dei cittadini comunitari rispetto ai cittadini nazionali, alla possibilità di partecipare e candidarsi alle elezioni locali quando residenti in altro paese UE (il Guardian ci chiosò sopra, al tempo, ironizzando sulla possibilità di vedere Cicciolina candidata alle elezioni locali in Inghilterra), fino alla possibilità di accedere ai servizi sociali di un altro paese membro (caso Grzelczyk) e di essere protetti dai servizi consolari di un altro stato UE, quando presenti in un paese terzo.
Se i trattati di Parigi e Roma, del 1952 e 1957, fondativi della CECA e della CEE, hanno impresso il DNA dell’integrazione europea (la ricerca della prosperità comune come garanzia della pace), il Trattato di Maastricht ha sfruttato lo slancio dell’Atto Unico del 1986 per dare un nuovo obiettivo forte al processo di integrazione: l’unificazione monetaria, da accompagnarsi ad avanzamenti nella politica interna ed estera, riprendendo almeno nel nome il progetto di Altiero Spinelli del 1984 di Unione europea, e preparandosi al grande salto dell’allargamento a est. L’UE di oggi, dopo il fallimento della Costituzione europea recuperata in extremis a Lisbona e la lenta e incerta uscita dalla crisi dell’eurozona, ha forse bisogno di un nuovo progetto, oggi che la pace è data per scontata e la prosperità è messa in dubbio, che ne giustifichi l’esistenza nei confronti dei tanti cittadini ai quali il processo decisionale europeo continua ad essere illeggibile. Anche su questo bisognerebbe riflettere, nell’anniversario di Maastricht, e in vista delle elezioni europee di primavera.
Foto: Jean Paul Toonen, Panoramio