Dopo mesi di stallo i negoziati sul nucleare iraniano sembrano timidamente risollevarsi dal pantano di recriminazioni sterili in cui erano affondati durante gli ultimi otto anni dell’amministrazione di Mahmoud Ahmadinejad. Complice la retorica del cambiamento del nuovo governo di Hassan Rouhani, entrato in carica lo scorso 3 agosto, l’ultimo round dei negoziati tra il cosiddetto “P5+1” (formato dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, più la Germania) e i rappresentanti iraniani, incontratisi il 16-17 ottobre a Ginevra, è stato definito da entrambe le parti “l’inizio di una nuova fase”. Qualche novità infatti c’è stata, almeno nella forma. I panegirici autocelebrativi dell’ex rappresentante iraniano Said Jalili sono stati sostituiti dallo stile pragmatico del nuovo Ministro degli esteri, Mohammad Javad Zarif. La scelta di Zarif, che ha vissuto a Washington in quanto rappresentante iraniano all’Onu dal 2002 al 2007, di condurre le discussioni in inglese ha permesso un approccio più diretto ai negoziati, volti a risolvere le tensioni legate al programma nucleare della Repubblica islamica, civile secondo Teheran, con preoccupanti risvolti militari secondo la comunità internazionale.
Nonostante i dettagli di quanto deciso a Ginevra restino riservati, qualche passo in avanti sembra esserci stato. Secondo le dichiarazioni del legislatore iraniano Hossein Naqavi Hosseini, riprese dal sito del Parlamento ma non ancora confermate in modo ufficiale, l’Iran avrebbe fermato l’arricchimento dell’uranio al 20 per cento. La quantità di uranio arricchito detenuta da Teheran preoccupa la comunità internazionale perché questa componente può essere utilizzata anche nella costruzione di ordigni nucleari. Ma oltre ai tecnicismi e alle differenti posizioni tra la Repubblica islamica e il gruppo “P5+1”, il vero ostacolo al raggiungimento di un accordo potrebbero essere le divisioni interne in Iran e negli Stati Uniti. Infatti, la telefonata storica dello scorso mese tra Obama e Rouhani – il primo contatto diretto tra i leader dei due Paesi negli ultimi trent’anni – ha rappresentato simbolicamente la rottura di un tabù, scatenando subito da entrambe le parti la reazione di una grossa fetta della classe politica che negli ultimi anni ha capitalizzato sulla demonizzazione del nemico. In Iran i conservatori radicali hanno dato il via a una campagna mediatica per mettere in dubbio l’affidabilità degli Stati Uniti nei negoziati e, in risposta al dibattito sorto sui giornali iraniani sulla necessità di moderare la retorica anti-americana, hanno indetto un “Down with the U.S. Festival”. Ma i conservatori si stanno mobilitando anche negli Stati Uniti, dove lo scorso mercoledì il senatore statunitense Marco Rubio ha chiesto sanzioni aggiuntive, mentre il membro del congresso Trent Franks sta cercando di far approvare alcune misure che autorizzerebbero il presidente Obama a usare la forza militare per fermare il programma iraniano.
Certo tre decadi di ostilità latente tra Usa e Iran non verranno superate con facilità, ma i vertici della Repubblica Islamica sembrano aver capito che far riguadagnare credibilità ai negoziati sia l’unico modo per dare un po’ di respiro all’economia iraniana, sempre più boccheggiante sotto le sanzioni internazionali. Rouhani sa che questo periodo di luna di miele post-elettorale è il momento giusto per spingere sull’acceleratore e moltiplicare i segni di apertura. Infatti, non è un caso che proprio in queste settimane si sia parlato di una prossima riapertura dell’ambasciata britannica, chiusa dal novembre 2011, dell’istituzione del primo volo diretto tra USA e Iran, di un alleggerimento della censura sui social network in Iran.
Tuttavia non andrebbe sottovalutato il fatto che la Guida suprema Ali Khamenei, carica non eletta che ha l’ultima parola sulle politiche della Repubblica islamica, stia mantenendo un basso profilo sulla questione dei negoziati. Quando lo scorso mese, in un’intervista rilasciata al canale statunitense NBC, Rouhani ha dichiarato di avere “pieni poteri e completa autorità” sul nucleare iraniano, questione che in realtà sarebbe nelle mani della Guida Suprema, ha confermato implicitamente di avere il beneplacito di Khamenei. Allo stesso tempo, però, si è personalmente assunto la responsabilità del successo o del fallimento di tali negoziati. Questo perché oggi in Iran il malcontento è diffuso e le aspettative di cambiamento della popolazione iraniana sono alte; qualora queste venissero tradite, per la sopravvivenza della Repubblica islamica è fondamentale che la responsabilità ricada sull’amministrazione Rouhani, non sul sistema.
Foto: safwat sayed, Flickr