Il massacro di Srebrenica avvenne l’11 luglio 1995 con l’uccisione di più di ottomila bosgnacchi (bosniaci musulmani), nella regione di Srebrenica in Bosnia ed Erzegovina, da parte di unità dell’esercito della Republika Srpska comandate dal Generale Ratko Mladic’ durante la guerra di Bosnia.
E’ considerato il più grande assassinio di massa in Europa dalla seconda guerra mondiale.
Il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, con sede all’Aja, ha decretato che le atrocità commesse a Srebrenica sono un atto di genocidio.
Dall’aprile 1993 la città di Srebrenica era stata dichiarata dalle Nazioni Unite una “area protetta” sotto la protezione dell’ONU. La realtà, purtroppo, fu ben diversa. Sebbene nel luglio 1995 vi fossero quattrocento caschi blu olandesi “a protezione” della città, il massacro non fu evitato.
La maggior parte delle vittime furono maschi adulti, ma anche numerosi bambini, donne e anziani persero la vita in quei tragici giorni.
La lista delle persone uccise o scomparse, stilata dalla Commissione Internazionale per le Persone Scomparse (ICMP), comprende ufficialmente 8.372 nomi.
L’undici luglio di ogni anno migliaia di persone sopravvissute al massacro, insieme a parenti delle vittime e numerose altre persone, tornano a Srebrenica per ricordare la tragedia e per il funerale di centinaia di vittime i cui corpi, ritrovati nelle fosse comuni, sono stati identificati nel corso dell’ultimo anno dalla Commissione Internazionale delle Persone Scomparse.
In occasione del diciassettesimo anniversario della strage, l’11 luglio 2012, cinquecentoventi nuovi corpi sono stati seppelliti nel cimitero/memoriale di Potocari, accanto alle 5137 tombe già esistenti.
Quel giorno ero lì, sotto un sole cocente, con la voglia di provare a comprendere una tragedia così grande, con la mia consueta curiosità e l’inseparabile reflex al collo.
Durante i mesi trascorsi nei paesi dei Balcani, nel corso dell’ estate 2012, ho goduto di magnifici paesaggi, visto incantevoli città, visitato musei, ascoltato ottima musica e assaggiato succulente specialità gastronomiche. Ho chiacchierato, riso e scherzato davanti a un bicchierino di rakija.
Viaggiando in Bosnia ho visto anche, non volevo e non potevo non vedere, cose assai meno piacevoli: scheletri di edifici distrutti dai bombardamenti, buchi di pallottole sui muri delle case di Mostar, impressionanti distese di tombe nei parchi e sulle colline di Sarajevo. Ho visto, nella città di Tuzla, frammenti umani, contrassegnati da numeri e codici, disposti, dopo esser stati ritrovati alla rinfusa nelle fosse comuni, su gelidi tavoli di alluminio, nella sede della Commissione Internazionale delle Persone Scomparse. Il difficile, paziente e prezioso compito delle persone che vi lavorano consiste nel ricomporre, pezzo dopo pezzo, “puzzle” di vite perdute. Per riconsegnare ai cari un corpo su cui pregare, e alla Storia una “identità”su cui riflettere.
Ho sentito sulla mia pelle la tensione che si respira nell’aria attraversando il ponte che nella città di Mitrovica, in Kosovo, separa la parte albanese da quella serba.
Ho ascoltato molte piccole e grandi storie accadute in periodo di guerra, cercando di capire, in quei mesi, come fosse stato possibile arrivare a tanto, e quali profonde cicatrici psicologiche turbano le anime e, ancor oggi, inevitabilmente, condizionano la vita delle persone coinvolte in quelle tristi vicende.
Prima della partenza conoscevo i fatti. Avevo letto alcuni libri, approfondito in rete, ne avevo sentito parlare dai media. Credevo di essere preparato. Pensavo di avere idee chiare in proposito, su ciò che era giusto e cosa sbagliato, sui “buoni” e sui “cattivi”, i “simpatici” e gli “antipatici”.
Parlare dal vivo con le persone coinvolte, vedere con i miei occhi le profonde ferite che la guerra ha inferto, ascoltare, incredulo, terrificanti episodi di vita mi ha fatto ben presto capire che non lo ero.
Non ero affatto preparato.
Come al solito, come più volte capitato nei miei viaggi, il contatto e la conoscenza diretta con le persone, le loro storie, l’entrare nelle loro case, penetrare, seppur superficialmente e per breve tempo, nelle loro vite, ha fatto crollare, in buona parte, il mio fragile castello di certezze precostituite.
Le mie “realtà” costruite a distanza, sui libri, sul web, sui giornali o guardando la televisione mi sono apparse, fin da subito, scricchiolanti e incomplete. Non ero più di fronte a semplicistiche e comode “categorie” quali serbi, croati, albanesi, bosgnacchi, musulmani, cristiani, vittime, carnefici, colpevoli, innocenti. Ero di fronte a persone in carne ed ossa. Con le loro storie, la loro sensibilità e le loro sofferenze.
Uomini e donne esattamente come noi, come i nostri padri, madri, nonni, fratelli, sorelle, mogli, mariti, figli e amici.
Come al solito era tutto più complicato, le sfumature erano infinite. Tutto era più intricato, ma allo stesso tempo più stimolante.
Succede spesso, a coloro che viaggiano con un po’di curiosità, di senso critico, di voglia di provare a mettersi in gioco, di conoscere ciò che è “altro da noi”, in maniera diretta, senza filtri. A chi non si limita, quando possibile, a ciò che ha letto, visto alla Tv, all’opinione del giornalista o scrittore preferito, o alle idee che si è creato attraverso i media, per quanto informarsi sia sacrosanto, utile e per certi versi doveroso.
E’ molto più facile di quanto si creda, se lo si vuole fare e si ha voglia di porsi domande, anche scomode.
Nei mesi trascorsi in queste terre “osservare, ascoltare e fotografare” è stato il mio modus operandi.
Ho cercato, come mia abitudine, di assorbire come una spugna tutto ciò che mi circondava, ma ho riposto la consueta voglia di esprimere la mia opinione, quando parlando con la gente venivano toccati temi inerenti alla guerra.
Un atteggiamento inedito, per un “rompicoglioni” come me. Sempre pronto, curioso come sono, ad ascoltare e imparare ma con un bisogno innato di discutere, provocare e manifestare le proprie idee.
Un atteggiamento adottato spontaneamente, fin dai primi giorni di viaggio in queste martoriate e affascinanti terre. Mi sembrava l’unico comportamento corretto e sensato. L’unico modo per non sentirmi, e cosa ancor più importante, per non comportarmi da cretino di fronte ai miei interlocutori.
E così, il 10 luglio 2012, con il mio piccolo zaino, ho preso un bus per Srebrenica dalla stazione di Sarajevo. Insieme a me, quarantamila persone hanno raggiunto in quei giorni la piccola città della Bosnia, per celebrare l’anniversario del massacro del 1995.
Dieci minuti son bastati, arrivato in loco, per intuire che mai avrei trovato una camera di albergo libera. Altrettanti, o forse meno, per trovare persone (un grazie di cuore alla Famiglia Begic’) che mi offrissero un tetto sotto il quale dormire, nei tre giorni trascorsi a Srebrenica.
Giornate vissute intensamente, con sentimenti contrastanti. Una esperienza emotivamente toccante, da cui sicuramente sono uscito arricchito.
Un tempo, tre giorni, assolutamente insufficiente per capire.
Un tempo sufficiente per contribuire, nel mio piccolo, attraverso qualche immagine, a tener vivo il ricordo.
Nella speranza, forse ingenua ma sincera, che mai più si ripeta un simile orrore.
11-07-1995, non dimenticate Srebrenica! qui il reportage fotografico
Principalmente non va dimenticata la viltà e l’impotenza dell’Unione Europea che si é voltata dall’altra parte davanti ai massacri, con un’opinione pubblica che si limitava a invocare la pace sbandierando grandi attestati di pacifismo.
Grazie per questo commento e queste foto che ci fanno ricordare le atrocità delle guerre e la necessità di prevenirle, ed il fatto, terribile, emerso in un convegno internazionale organizzato dall’IPRI-Rete CCP, che si spende solo 1€ per prevenire le guerre contro almeno 10.000€ per farle, senza tener conto delle spese per ricostruire le case ed altre strutture per vivere (acquedotti, fabbriche, ospedali, scuole, ecc,) distrutti dalla guerra. Ma le persone morte non possono essere fatte rivivere. Per questo è importante lottare, uniti, contro le elevatissime spese militari, per aumentare quelle invece per la vita e la prevenzione dei conflitti armati. Con la speranza che questo diventi un obbiettivo condiviso da molti e dalla maggioranza stessa della popolazione. Alberto L’Abate
Belle parole, ma i pacifisti, di cui si ha l’impressione che intervengano solo quando si tratta degli americani, l’ONU, il Papa non sono riusciti mai a evitare una guerra. Forse il problema é affrontato con troppa superficialità e richieerebbe approfondimenti che non sono alla portata di tutti.