Il carattere secolare dello Stato è forse la caratteristica più conosciuta della Turchia repubblicana fondata da Kemal Atatürk. La laicità turca, elemento considerato come marcatamente “occidentale” del paese, viene quasi sempre lodata e difesa, in gran parte a ragione, rispetto alle visioni religiose della società e della politica. Questo non deve però farci dimenticare ciò che invece la differenzia, e talvolta la contrappone, rispetto alle nostre concezioni del rapporto tra Stato e religioni. La laicità è un’idea che giunse in Turchia dall’Europa occidentale nel corso del XIX secolo, tuttavia, una volta importata in una diversa realtà, essa subì un’evoluzione decisamente originale.
Il principio liberale della separazione tra politica e religione così come sviluppatosi in Europa occidentale e nell’America del nord a partire dalla Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688, si configura come l’esistenza di due sfere del tutto autonome di cui bisogna, per quanto possibile, impedire la reciproca interferenza.
L’approccio kemalista è totalmente diverso. Con l’abolizione del Califfato anche la principale autorità normativa in ambito religioso, lo Şeyh-ül İslam, cessò di esistere e venne sostituita da un ufficio statale, il Diyanet İşleri Başkanlığı (letteramente Presidenza degli affari religiosi, nel linguaggio comune viene spesso chiamato semplicemente Diyanet). Non si tratta qui di separare la sfera politica da quella religiosa, ma di porre la seconda sotto il controllo della prima, con il paradosso di un’autorità laica che controlla e regola quanto concerne la fede religiosa. La concezione liberale della laicità è quindi ribaltata.
Atatürk e i suoi collaboratori giunsero a questa soluzione anche e soprattutto attraverso una loro radicata convinzione: lo stile di vita islamico, così come concepito nella Turchia di inizio secolo, costituiva un ostacolo alla modernizzazione e all’europeizzazione del paese, pertanto era necessario intervenire direttamente per rieducare il popolo alla fede, sottraendo così ai tradizionalisti il monopolio del discorso religioso all’interno della società civile. Questa impostazione, che ricorda molto da vicino la kulturkampf della Germania bismarckiana, ha evidentemente poco a che vedere con la laicità dello stato nel senso liberale del termine.
Lo Stato laico di matrice liberale coincide, almeno in linea di principio, con una società aperta al pluralismo religioso, dove l’identità nazionale si basa su un concetto di cittadinanza e un sentimento di appartenenza estraneo a fattori confessionali. Diversissimo il caso della Turchia, dove la sottomissione della religione al controllo dello Stato ha paradossalmente favorito una nuova forma di identificazione tra i due ambiti.
L’Anatolia, sotto l’impero “musulmano” degli Ottomani, fu sempre caratterizzata da una vivace convivenza non solo di etnie e di nazionalità, ma anche di diverse religioni e confessioni. A cambiare lo stato di cose fu proprio la definitiva svolta laica e nazionalista a cavallo della prima guerra mondiale. La storia della Turchia repubblicana comincia con l’espulsione di 1.500.000 Rum – cioè cristiani di confessione greco-ortodossa – dall’Anatolia, completando così il progetto, già portato avanti dai Giovani Turchi, di creare un paese monoreligioso. Inoltre lo Stato, attraverso il Diyanet (che si occupa tra le altre cose di fornire l’obbligatoria educazione religiosa nelle scuole), rappresenta esclusivamente la componente sunnita dell’Islam turco, favorendo in questo modo la discriminazione verso la comunità sciita degli alevi, l’unica grande minoranza religiosa presente oggi in Turchia.
L’ideologia nazionalista, che utilizza la religione come fattore identitario, è stata pienamente sviluppata a partire dagli anni ’70 da parte della destra turca nella dottrina della “sintesi turco-islamica” (Türk-İslam sentezi), ma si può affermare con una certa sicurezza che le sue radici culturali risalgono agli albori della Repubblica.
L’ascesa dell’AKP ai vertici dello Stato turco non ha cambiato questa prospettiva: se da una parte la nuova classe dirigente ha portato alle sue estreme conseguenze il processo di occidentalizzazione del paese – soprattutto per quanto riguarda le caratteristiche principali dell’Occidente contemporaneo, cioè il modo di produzione capitalistico e la società dei consumi – dall’altra, proprio per le sue radici confessionali, ha ulteriormente consolidato l’identificazione tra la Turchia e il sunnismo.
Tutta la storia della Turchia moderna è attraversata dunque da un notevole paradosso: l’europeizzazione e la modernizzazione del paese sono andate di pari passo, in modo direttamente proporzionale, con l’identificazione della nazionalità turca con l’Islam sunnita. Il processo di democratizzazione della Turchia deve quindi necessariamente passare attraverso un ripensamento del rapporto tra Stato e religione così come si è configurato nel corso dell’ultimo secolo.
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(photo by REUTERS/Osman Orsal)