L’11 luglio è la data che da 18 anni contraddistingue la giornata del ricordo per il genocidio di Srebrenica, dove sul finire della guerra l’esercito della Republika Srpska (VRS) violava la risoluzione 819 delle Nazioni Unite che la dichiarava “enclave protetta”. In quelle giornate di luglio vennero uccisi più di 8.000 uomini, in età compresa tra i 13 e i 60 anni (“età militare”), e i loro corpi vennero dispersi in diverse fosse comuni, rendendo ancora oggi difficile il recupero e l’identificazione dei resti delle vittime.
Solo nei giorni scorsi l’ex generale bosniaco-musulmano, Naser Oric, attivo nella zona di Srebrenica durante la guerra, aveva dichiarato in un libro appena apparso di dispiacersi “di non aver ammazzato” allora il generale francese Philippe Morillon, a capo delle forze ONU in Bosnia orientale, che aveva promesso di proteggere Srebrenica ma che aveva infine lasciato campo libero ai serbi. Per lo stesso fallimento, il governo olandese nell’estate del 1995 si dimise (olandesi erano i caschi blu nell’enclave).
Anche quest’anno, al memoriale di Potočari, come ogni anno, veniva effettuata la cerimonia di sepoltura delle vittime identificate nel corso dell’anno (409) dal rinvenimento dei resti nelle foreste circostanti la piccola città della Bosnia orientale. In totale, le vittime identificate sono così salite a 6.066. Alla cerimonia hanno partecipato, come consuetudine, le due principali organizzazioni della società civile attive per la memoria del genocidio di Srebrenica, le “Žene Srebrenice” (Donne di Srebrenica), che raccoglie le madri, mogli, figlie e sorelle delle vittime; e le “Žene u crnom” (Donne in Nero) di Belgrado, che dal ’91 si battono contro la guerra e il nazionalismo e affinché non si dimentichi il genocidio di Srebrenica. A nome dell’UE, partecipava Catherine Ashton, augurandosi la fine del negazionismo del genocidio.
I maggiori responsabili di quello che è nota essere la più grande violazione dei diritti dell’uomo dalla fine della seconda guerra mondiale, sono stati tutti arrestati e consegnati al tribunale internazionale dell’Aja. I principali imputati sono Ratko Mladić, in qualità di generale della VRS e Radovan Karadžić, presidente della Republika Srpska.
Ed è proprio il processo a Karadžić a costituire l’elemento d’interesse. Nella giornata di ieri infatti, la camera d’appello del tribunale si esprimeva sulla conferma o meno della sentenza di primo grado del giugno 2012, nella quale Karadžić era stato prosciolto dall’accusa di aver condotto pulizia etnica nelle municipalità di Bratunac, Foča, Kljuć, Prijedor, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik. La motivazione era l’assenza di prove che confermassero che l’imputato avesse comandato condotte finalizzate alla pulizia etnica e al genocidio nei confronti di bosgnacchi e croati. Nella giornata di ieri invece, il giudice Meron ha constatato che “le prove dimostrano che bosgnacchi e croati venivano richiusi in centri di detenzione con lo scopo di essere eliminati”. Inoltre, “esiste la prova che Karadžić abbia preso parte a incontri in cui venne deciso che un terzo dei musulmani sarebbe stato ucciso, un altro terzo forzato alla conversioni al cristianesimo e il terzo restante avrebbe avuto la possibilità di scegliere, rimuovendo così tutti i musulmani dalla Bosnia”, ha aggiunto Meron.
La decisione del tribunale di fissare l’udienza nella giornata di ieri non è stata di certo la migliore scelta. In particolare, stupisce come i giudici non si siano resi conto delle conseguenze che ne sarebbero potute derivare. Se infatti fosse stata confermata la decisione di prosciogliere l’imputato numero uno dall’accusa di pulizia etnica nel giorno del ricordo di Srebrenica, questa sentenza avrebbe avuto del clamoroso e segnato per sempre la già compromessa reputazione del tribunale. D’altro canto invece, la scelta dei giudici di tornare sui propri passi conferma innanzitutto la scarsa coerenza del tribunale, e perlopiù alimenta le opinioni, già ampiamente diffuse, per le quali il tribunale sarebbe anti-serbo o troppo sensibilmente vincolato alla causa bosgnacca.
Ciononostante, il processo di riappacificazione continua progressivamente all’interno della società civile transnazionale, come le Donne di Srebrenica e le Donne in Nero dimostrano, mentre le istituzioni “ad hoc”, dopo il recente scandalo provocato dalla lettera del giudice Harhoff, confermano una volta di più la propria condotta ambigua e incoerente.
Foto: Don’t Forget Srebrenica