Il 2 luglio 1993, esattamente vent’anni fa, l’hotel Madimak di Sivas scompariva mangiato dalle fiamme. Quelle fiamme, tragicamente dolose, tolsero la vita a trentasette persone, quasi tutti aleviti. L’hotel ospitava in quei giorni un gruppo di intellettuali riuniti per celebrare la festa di Pir Sultan Abdal, figura importante nella cultura alevita. Non fu mai fatta chiarezza sull’evento passato alla storia come “la strage di Sivas” e il caso venne chiuso per prescrizione nel marzo 2012. L’albergo è stato innalzato a simbolo della discriminazione contro gli aleviti, ma sono moltissime le pagine della storia turca recente che registrano veri e propri massacri ai danni della principale minoranza religiosa in Anatolia (ne parlammo approfonditamente nel numero 4 di Most).
A vent’anni dalla strage di Sivas, gli aleviti stringono la mano ai manifestanti di Taksim
Le commemorazioni per il ventennale della tragedia sono iniziate già da una settimana ad Istanbul, dove un coordinamento di associazioni alevite ha organizzato una manifestazione a cui hanno partecipato in migliaia. C’era anche la Piattaforma di Solidarietà Taksim, organizzazione tra le prime a muoversi per il parco Gezi. Il collegamento con le proteste di Taksim è forte, le rivendicazioni si uniscono e si fondono in una incalzante richiesta di ascolto diretta al governo. Durante la dimostrazione il ricordo dei morti dell’hotel Madimak si somma tristemente alle vittime della repressione in corso in questi mesi in tutte le maggiori città turche. In particolare, risuona il nome di Ethem Sarısülük, un giovane alevita che ha perso la vita sotto il fuoco della polizia durante proteste di Ankara.
Dopo il parco, il ponte. Simboli di un’idea monolitica di Turchia
All’inizio di giugno, un gruppo di aleviti si era riunito per manifestare contro un nuovo simbolo del nazionalismo che non rispetta le minoranze. Il soggetto incriminato è il nome del terzo ponte sul Bosforo, i cui lavori di costruzione sono appena cominciati. L’opera si dovrebbe chiamare “Yavuz Sultan Suleiman”, in onore del primo califfo ottomano, simbolo dell’omologazione sunnita e della repressione di ogni altra identità e religione finalizzata a ricostituire la Umma islamica. Gli aleviti protestano perché la scelta è fortemente simbolica. La storia turca è ricca di personaggi importanti: con la gran varietà di nomi disponibili non ne è stato scelto uno che potesse rappresentare tutti i turchi e richiamasse l’unità e la convivenza. La scelta è ricaduta sulla rappresentazione del califfato. Opera nuovissima, messaggio antico.
Erdogan: la crisi su ogni fronte e le complicazioni del protagonismo
Nel frattempo, Erdogan accusa l’opposizione di fomentare le tensioni settarie. I punti di crisi aumentano, le rivendicazioni si uniscono in un coro sempre più difficile da non ascoltare. Il primo ministro, nonostante il pugno duro e sua linea determinata, si trova in una situazione di grande complessità. Alle proteste legate alle circostanze attuali si aggiungono le questioni mai risolte dai palazzi di Ankara. Certamente la storia buia delle minoranze in Turchia non è tutta responsabilità personale di Erdogan né politica del suo partito, l’AKP. Storicamente, molte delle discriminazioni e delle marginalizzazioni nei confronti delle minoranze sono piuttosto da ricondurre alle politiche del partito di opposizione, il CHP. Tuttavia, questo attualmente conta poco. Il grande protagonista della politica turca oggi è lui, Recep Tayyip Erdogan, più per scelta che per caso. Tutti i satelliti della crisi sociale e politica profonda che sta investendo la Turchia ruotano intorno a lui, in cerca di risposte. Ed è lui che deve decidere se dare una svolta di ascolto, apertura e democratizzazione o se adottare il pugno di ferro seguendo l’esempio della lunga scia dei suoi predecessori.
Fotografia di Daniele Pesaresi CC