BOSNIA: Prijedor, un nastro bianco in mezzo al buio

Molti nostri vicini di casa dicono oggi che non sapevano che tanti bambini e tante donne sono stati ammazzati a Prijedor, però la verità è che molti di loro non hanno neanche voluto sapere”, dice Teufik Kulašić, uno dei prigionieri sopravvissuti di Keraterm, uno dei tre campi di concentramento di Prijedor in cui sono stati detenuti più di 30.000 cittadini e dal quale più di 3.000 persone non sono mai tornate. “Oggi commemoriamo il giorno in cui a Prijedor è stata presa la decisione di contrassegnare qualsiasi persona che non fosse di nazionalità serba.”

 L’episodio più vergognoso

 21 anni dopo che le autorità di Prijedor ordinarono che tutti i musulmani e croati di Prijedor dovessero portare dei nastri bianchi al braccio come segno di riconoscimento e che segnalassero le loro case con lenzuola bianche, Teufik si trova nella piazza principale insieme a un centinaio di concittadini ed attivisti di tutta la Bosnia-Erzegovina, riunitisi per commemorare l’inizio di uno dei più vergognosi episodi della guerra passata.

 L’enorme piazza davanti al grande magazzino di Prijedor oggi porta il nome di Zoran Karlica, leader dei gruppi paramilitari serbi che parteciparono alle prime azioni di, per dirlo con un eufemismo, “pulizia etnica” di Prijedor. Il suo nome compare nel rapporto della Commissione di esperti delle Nazioni Unite riguardo alla “pulizia” del villaggio di Bišćani, non lontano da Prijedor, e secondo la stessa fonte, il suddetto Karlica è stato presumibilmente responsabile di “uccisioni, violenze sessuali e altre forme di maltrattamento accadute in quel villaggio.”

 Stando sotto la pioggia sottile che ha appena iniziato a cadere, Teufik dice: “Anche oggi sto male quando uno dei vicini dice “Prijedor è mia”. Questo mi infastidisce e rispondo sempre – Prijedor è anche mia! Qui sono nato, cresciuto, ho finito la scuola superiore. Allo stesso modo mi colpisce quando sento che a Prijedor c’è stata la guerra. Non hanno ragione, qui non c’è stata la guerra, tutti quelli che non erano Serbi sono stati cacciati fuori.”

Teufik dice che la maggioranza dei Bosgnacchi espulsi è tornata nei villaggi intorno a Prijedor, con l’eccezione dei centri cittadini, e che sono riusciti a ricostruire le loro case. “Abbiamo recuperato le perdite materiali, ma non possiamo riavere i nostri morti”, aggiunge.

Gli attivisti raccolti intorno all’iniziativa cittadina informale “Jer me se tiče” (Perché mi riguarda), venerdì hanno posato dei fiori nella menzionata piazza, in segno di rispetto per tutte le vittime civili della guerra. Alle rose bianche e rosse, posate in cerchio nel luogo in cui dovrebbe esserci il monumento di tutti i cittadini di Prijedor uccisi, sono state agganciate dei piccoli nastri bianchi con su scritto i nomi di tutti i bambini assassinati nel comune di Prijedor.

La manifestazione non autorizzata

 Agli attivisti di Prijedor si sono uniti anche ospiti da Banja Luka, Mostar, Zenica, Sarajevo, Tuzla e di altre città bosniache, ma anche da Belgrado, da dove è venuta la delegazione dell’associazione Donne in nero.

Staša Zajović, la coordinatrice dell’associazione Donne in nero pensa che, nonostante tutto, una manifestazione di questo genere a Prijedor è già di per sé “storica”. Questo evento dimostra cosa vuol dire una solidale e comune pressione sulle autorità municipali che non solo ignorano ma anche denigrano il ricordo delle persecuzioni, delle torture e delle umiliazioni della popolazione non-serba di Prijedor. Questo dimostra la forza della società civile capace di affrontare il passato e dimostra quanto sia necessario creare una comunità solidale che non permetta che si ripetano cose del genere, nonostante tutti i problemi dei meccanismi di giustizia istituzionale a livello internazionale”, dice Zajović.

 Si sente, però, delusa dal fatto che alla commemorazione del 31 maggio siano venuti attivisti da tutta la Bosnia-Erzegovina e dalla Serbia, ma che, allo stesso momento, non c’erano in piazza i rappresentanti delle autorità locali. “Questo dimostra che il più elementare ordine morale è sconvolto. L’azione di oggi è un urlo perché venga stabilito uno spartiacque tra il bene e il male, perché questa forma di non ascolto è un atto di ingiustizia verso se stessi, ma soprattutto verso le vittime di questi crimini orribili, folli, fascisti”, conclude la coordinatrice delle Donne in Nero.

 Mentre il corteo – senza autorizzazione – passava per la via principale di Prijedor, dai bar vicini si sentiva la musica ad alto volume e molti cittadini di Prijedor prendevano il sole nei giardini guardando senza alcun interesse quello che succedeva. Staša Zajović dice che questo l’ha infastidita di più che se fosse successo qualche incidente, cosa che per fortuna non è accaduta.

 “Sfortunatamente, gran parte della gente è stata manipolata”, dice la Zajović, “però ci fa molto piacere che di anno in anno in queste manifestazioni aumenti il numero di presenti che denunciano l’impunità dei crimini. Oggi, il più grande male è l’indifferenza e il volgere lo sguardo altrove”. Dopo la lettura di alcune poesie scritte da poeti di Prijedor, è stata letta una lista di richieste, rivolta alle autorità locali che neanche quest’anno hanno autorizzato ufficialmente la commemorazione del giorno di inizio della sofferenza di massa dei cittadini della città.

Emir Hodžić, uno degli iniziatori di questa iniziativa che l’anno scorso ha stazionato da solo in piazza Karlica con un nastro bianco attorno al braccio, dice che lo scopo di questa campagna è di denuciare il fatto che le autorità locali continuino a negare i crimini di Prijedor, proibiscano i ritrovi commemorativi e non autorizzino la costruzione di un monumento dedicato ai civili di nazionalità non serba uccisi. “Il nostro scopo è di dire basta alla segregazione e discriminazione.”

Dello stesso avviso è anche suo cugino Refik, ex portavoce del Tribunale dell’Aja, nato a Prijedor, Hodžić sostiene che a Prijedor vige “la segregazione istituzionale” e che il Sindaco Marko Pavić si rifiuta di riconoscere alle famiglie e alle associazioni dei sopravvissuti gli stessi diritti dei cittadini di nazionalità serba. “Le autorità attuano una politica verso le vittime altrui che non è nient’altro che un apartheid, come in Sudafrica, dove gli uni avevano più valore degli altri solo per il nome che portavano o per la nazionalità alla quale appartenevano”, ha detto Hodžić.

Senza responsabilità

 Enisa Hasanagić diKuca otvorenog srca (Casa del cuore aperto) di Mostar, associazione che riunisce cittadine della terza età, dice che con le sue colleghe ha accettato l’invito dei giovani di Mostar di partecipare all’evento. “Siamo contente che non ci siano stati incidenti e che la manifestazione si sia svolta in pace”, dice lei aggiungendo che è arrivato il tempo che si possa dire tutto apertamente. “Per questo abbiamo bisogno e dobbiamo parlare apertamente di tutto quello che è successo, perchéil male non si ripeta mai più”, dice la Hasanagić per il portale Diskriminacija.ba.

 Goran Zorić, attivista di Prijedor e uno degli organizzatori dell’evento considera che è estremamente importante che tutti i segmenti della società civile di Prijedor si oppongano alla politica ufficiale di negazione e di oblio. “Mi fa piacere che tutto sia andato a buon fine e senza incidenti. Dal capo della municipalità Marko Pavić abbiamo ricevuto un divieto a manifestare, però abbiamo comunque deciso di fare il corteo in città per mostrare che è arrivato il tempo di porre fine alle politiche di non presa delle responsabilità politiche, abusando di sentimenti nazionalisti che Pavić con le sue scelte rappresenta”,dice Goran Zorić.

 Come ricordano quelli di Jer me se tiče (Perché mi riguarda), infatti, il sindaco di Prijedor aveva proibito il comizio con la giustificazione che “la via principale della città non è un luogo adatto ai raduni pubblici”. Una decina di poliziotti per il comizio non hanno cercato di fermare il corteo di protesta.

 Gli attivisti, comunque, pensano che le autorità di Prijedor si comportino in maniera repressiva “coi modi dei sistemi politici rigidi e autoritari che considerano le persone come materiale di consumo”.

 “Mentre si rifanno ad un passato di partigiani e alla gloriosa battaglia dei nostri nonni, le autorità di Prijedor in pratica si comportano come facevano i collaborazionisti dei nazisti, proibendo l’espressione di attitudini diverse dalle loro e limitando le libertà dei cittadini e delle cittadine”, ha detto Ana Vidović di Inicijativa mladih za ljudska prava (Iniziativa dei giovani per i diritti umani).

 Marko Pavić, Sindaco della municipalità di Prijedor, non ha risposto alle nostre telefonate.

 Un piccolo passo

 Dopo il breve corteo, la manifestazione è terminata presto perché la pioggia ha iniziato a cadere sempre più forte. Sul marciapiede della piazza che porta il nome del criminale di quei giorni orribili del 1992 è rimasto il cerchio di rose bianche e rosse a testimonianza dell’uccisione dei bambini di Prijedor. “Saro soddisfatto quando vedrò che i nostri vicini serbi si vergognano almeno un po’ per quello che è successo qui e in loro nome” , dice Teufik Kulašić.

 Nusreta Sivać, una delle detenute sopravvissute di Omarska, prima della guerra Presidente del Tribunale di Prijedor che – dopo il suo ritorno – non ha potuto trovare lavoro nella sua città natale e oggi lavora a Sanski Most, considera che, nonostante tutto, la situazione stia migliorando.

Video delle richieste sul canale youtube: http://www.youtube.com/watch?v=rYBBu9-EcTs

Trad. Emina Ristović e Simone Malavolti per Trentino Balcani. Source: http://diskriminacija.ba/node/404. Foto: Ivor Fuka, Eldin Hadžović, Edin Ramulić

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