CROAZIA: Vent’anni senza Dražen Petrović, il Mozart del basket

Il Mozart della musica era austriaco, Il Mozart della pallacanestro invece è nato a Šibenik nel 1964. Oggi Croazia, allora Jugoslavia. Si chiamava Dražen Petrović, e la sua carriera è stata davvero una sinfonia travolgente e appassionante, piena di momenti algidi, drammatici, trionfali. Una sinfonia interrotta, proprio all’apice, da uno schianto. Un’incidente su un’autostrada tedesca, in un anonimo comune bavarese di nome Denkendorf. Un pomeriggio di esattamente 20 anni fa, il 7 giugno 1993.

Ancora oggi, molti riconoscono in Dražen il miglior giocatore europeo della storia della pallacanestro. Il suo era un talento innato, ma anche costruito su un carattere quadrato e una forza di volontà granitica. Ancora adolescente, si alzava all’alba per fare 500 tiri prima di entrare a scuola. Quando diventò professionista, si allenava almeno sei ore al giorno. Si racconta che quando giocava al Real Madrid non tornasse a casa prima di segnare almeno centro triple, e che dopo una sconfitta restò in palestra a tirare fino a tarda notte come “castigo”. La sua concentrazione era maniacale, durante i ritiri difficilmente parlava d’altro che di basket. Sul parquet era irriverente e provocatore con gli avversari. E persino i suoi compagni talvolta soffrivano il suo individualismo eclettico e ribelle.

Sebenico, Zagabria, Madrid e l’NBA: le tappe di una carriera

Dai suoi inizi nel KK Šibenik, passando per il Cibona Zagabria (1984-1988) e per il Real Madrid (1988-89), la carriera europea di Petrović è un crescendo di successi e di imprese leggendarie. Da ricordare, tra le altre: i 112 punti segnati in una sola partita, e a 21 anni, in un match del suo Cibona contro l’Olimpija Ljubljana nel campionato jugoslavo 1984/85 (ancora oggi, una delle migliori performance individuali nella storia del basket); le due Coppe dei Campioni (1985 e 1986) e i due campionati jugoslavi (1984 e 1985) vinti con il Cibona, da assoluto protagonista, viaggiando stabilmente a più di 30 punti di media. È allora che Enrico Campana, giornalista della Gazzetta dello Sport, gli affibbia il nome di “Mozart dei canestri” che lo accompagna ancora oggi (e il bar della sua famiglia e a lui dedicato, che si trova a Zagabria, si chiama “Amadeus”). E ancora, come dimenticare la storica finale di Coppa delle Coppe del 1989 con il Real Madrid, quando Dražen segna la bellezza di 62 punti contro la Snaidero Caserta di Gentile e Oscar Schmidt.

Ormai raggiunto il tetto d’Europa, Petrović sbarca negli Stati Uniti in tempi non sospetti. All’epoca l’NBA è ancora un altro mondo, separato da ben più di un oceano. Gli europei che giocano lì si contano sulle dita di una mano o poco piu’, non come oggi. Ma con i Portland Trail Blazers, un club già pieno di stelle, Petrović non ha spazio e non sfonda. Nel 1991 si trasferisce ai New Jersey Nets, dove torna a brillare. Riconquista il suo ruolo di micidiale realizzatore e tiratore. “Mi sfidava, mi insultava in quattro lingue. Adoravo giocare contro di lui. Per me è il miglior tiratore che abbia mai visto”, dirà in seguito Reggie Miller, proprio uno che al posto di “best shooter ever” potrebbe tranquillamente ambire. “Era appassionante giocare con lui. Giocava aggressivo, ma non era nervoso. Giocava duro con me come io con lui. Abbiamo avuto grandi battaglie”, ricorda “Sua Ariezza” Michael Jordan. Petrović diventa l’indiscusso leader di una squadra che inizia presto a stargli stretta, perché relegata ai piani bassi della griglia playoffs. Dražen, da sempre uomo di sfide, medita di lasciare i Nets per cercarsi una squadra NBA di alto rango. Ma accarezza anche il ritorno in Europa, forse tra le file dei greci del Panathinaikos, all’epoca disposti a strapagarlo. Ma per lui, quel che conta è giocare con la nazionale.

Le nazionali di Dražen

Infatti, la leggenda di Dražen Petrović coincide anche con quella di una, anzi due, nazionali. Di quella jugoslava, fu un pilastro negli anni Ottanta ed artefice del trionfo agli Europei del 1989. I plavi stradominano quell’edizione, peraltro giocata in casa, a Zagabria. Vincono tutte le partite con 20 o più punti di scarto, e Dražen e’ nominato miglior giocatore del torneo. Quella Jugoslavia e’ un vero dream team europeo, con talenti da urlo che ancora oggi ricordano quella esperienza come “una famiglia”. Tra gli altri: Toni Kukoč e Dino Rađa dalla Croazia; Jure Zdovc dalla Slovenia; Mario Primorac dalla Bosnia-Erzegovina, Žarko Paspalj e Vlade Divac dalla Serbia. Quest’ultimo e’ il compagno di stanza di Petrović. I due sono complementari per background e carattere, e forse proprio per questo diventano grandi amici. Vlade serbo di Prijepolje, nato tra le montagne, compagnone e scanzonato. Dražen figlio della costa dalmata, serioso e perennemente concentrato. Dopo il trionfo degli Europei 1989, entrambi sbarcano negli Stati Uniti per giocare nell’NBA, e si sentono ogni giorno al telefono. Vlade racconta euforico le luci e la ribalta di Los Angeles, Dražen invece si sfoga per le difficoltà che incontra a Portland.

Nel 1990, la Jugoslavia domina anche i mondiali in Argentina. Sconfigge in semifinale gli Stati Uniti e in finale gli avversari storici dell’Unione Sovietica. Ma in patria, com’è noto, già quell’anno l’aria si e’ fatta pesante, e qualcosa inizia a scricchiolare anche nella “famiglia” felice e vincente dei cestisti jugoslavi. Quando a Buenos Aires, nei festeggiamenti in campo spunta una bandiera croata, Vlade Divac la strappa di mano al tifoso e la getta a terra. Divac difenderà lo spirito “jugoslavista” di quel gesto, a suo dire per difendere la squadra. Ma la stampa di Zagabria lo massacra, parte dell’opinione pubblica croata ancora oggi non glielo perdona. Alcuni giocatori prendono, più o meno direttamente, le distanze da Divac, anche per le forti pressioni che si subiscono in quel periodo, dalla società e dalla politica.

Petrović, dal canto suo, congela i rapporti con Vlade e prende posizione per la causa croata. Quando inizia la guerra in Slavonia dichiara, senza mezzi termini, con l’orgoglio e l’ostinazione che lo contraddistingue: “Non sono jugoslavo, sono croato”. E ovviamente diventa subito la bandiera della neonata nazionale croata, che partecipa alle Olimpiadi di Barcellona 1992 ed arriva in finale. I croati giocano i primi 10 minuti alla pari contro Michael Jordan e compagnia, e addirittura assaporano il vantaggio, 25-23. Poi, inesorabile, il Dream Team d’Oltreoceano prende il largo, non bastano i 24 punti di Dražen. Ma l’ argento croato ha davvero il sapore d’oro. E non è dato sapere dove sarebbe arrivata un’ipotetica Jugoslavia ancora unita, in quelle olimpiadi di Barcellona. Dove sarebbe arrivato il Dream Team europeo contro quello statunitense. Che partita sarebbe stata tra le due nazionali piu’ forti della storia, nelle rispettive sponde dell’Atlantico.

“Lui è nostro”

L’attaccamento di Dražen alla maglia della Croazia è tale che l’anno dopo, nell’estate del 1993, appena chiusa la stagione NBA rientra subito per giocare il torneo di qualificazione agli Europei. La Croazia ce la farebbe a mani basse anche senza Dražen. Ma, si sa, lui è ostinato, orgoglioso, maniacale. Vuole esserci. Dopo una partita in Polonia, ovviamente stravinta, la squadra viaggia in aereo per la Croazia, ma Dražen preferisce fare il viaggio in auto con la sua fidanzata, Klara Szalantzy (oggi signora Bierhoff). Mentre attraversano la Baviera in autostrada, nei pressi di Denkendorf, un violento acquazzone fa sbandare un tir che si pianta in mezzo alla strada. La Golf guidata da Klara, e su cui viaggiano Dražen e un’amica, lo centra in pieno. Le due ragazze si salvano, ma Dražen muore sul colpo. E’ il 7 giugno 1993, uno shock tremendo per la Croazia, e l’intero mondo del basket. Ai suoi funerali a Zagabria partecipano circa 100.000 persone. Qualche tempo dopo, la mamma di Dražen in visita alla tomba del figlio. Si avvicina un bambino che le dice: “Signora, forse l’ha cresciuto lei. Ma lui è nostro, è di tutti noi”.

Nel 2008, a Zagabria apre un museo in onore di Dražen Petrović. Nel 2010, Vlade Divac dedica al vecchio amico un documentario prodotto dalla ESPN, “Once brothers”, che narra l’epopea di quella nazionale jugoslava e l’amicizia speciale tra Vlade e Dražen. Un’amicizia congelata per sempre per una vicenda di bandiere, e per quello schianto maledetto. Il documentario, a cui partecipano anche i familiari e i compagni di Dražen, ha un grande successo internazionale (sebbene non manchi qualche inevitabile critica, soprattutto da parte croata). Parte di quella famiglia sembra comunque riavvicinarsi. Pochi giorni fa, il croato Dino Rađa e il serbo Vlade Divac hanno partecipato assieme in un noto programma della televisione serba, ricordando con nostalgia i tempi di quella nazionale irripetibile, fondata sul talento e sul lavoro duro, di cui Dražen fu il massimo interprete. Ci restano queste testimonianze, e i video sbiaditi di tante partite registrate su VHS d’annata e caricate su youtube, per ammirare le tante sinfonie di Dražen Petrović, il Mozart del basket. Che ancora oggi appassiona, come quando suonava sul parquet.

Photo: “Once Brothers”

Chi è Alfredo Sasso

Dottore di ricerca in storia contemporanea dei Balcani all'Università Autonoma di Barcellona (UAB); assegnista all'Università di Rijeka (CAS-UNIRI), è redattore di East Journal dal 2011 e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Attualmente è presidente dell'Associazione Most attraverso cui coordina e promuove le attività off-line del progetto East Journal.

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2 commenti

  1. Articolo quasi commovente. Grazie Alfredo.

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