Nato a Nishpur, nell’attuale Iran nord-orientale, Omar Khayyam (1048-1131) fu matematico, astronomo e poeta persiano. Il suo nome completo è Ghiyāth al-Dīn Abū l-Fatḥ ʿUmar ibn Ibrāhīm al-Nīsābūrī al-Khayyāmī (o al-Khayyām). L’ultima denominazione significa costruttore di tende, probabile attività di suo padre Ibrāhīm. E’ uno dei più grandi esempi di poesia persiana, testimonianza dell’alto livello di civiltà raggiunto dalla Persia in quello che da noi era un barbaro alto-mediovevo. Una civiltà che pure stava andando incontro a enormi cambiamenti. Omar Khayyam è un uomo che vive i travagli del proprio tempo, i conflitti religiosi ma soprattutto l’invasione dei turchi selgiuchidi. Nel 1070 si trasferisce a Samarcanda dove viene protetto dal giurista Abū Tāhir e riesce a scrivere il Trattato sulla dimostrazione dei problemi di algebra, il suo libro più importante. Tre anni dopo viene invitato dallo Shah Jalāl al-Dīn, detto Malik Shah, a redigere un calendario che supererà per accuratezza sia quello giuliano che quello gregoriano. Dopo alterne vicende, che vedranno la morte del suo protettore Malik, ucciso dalla setta ismaelita degli Assassini, trova nuovo asilo presso il nipote di Malik Shah che s’impadronisce dell’intero impero selgiuchide. In questo perido di tranquillità si avventurò nella risoluzione delle equazioni cubiche.
Più che per la matematica, Khayyam è noto per la poesia. Le sue quartine (rub’ayyat) sono dedicate soprattutto al motivo del vino e all’esaltazione del “vizio” bacchico, ma contengono pure altri temi, assai più profondi, come ad esempio una meditazione originale sulla morte e sui limiti della ragione umana “impotente” di fronte al mistero dell’esistenza; un rimprovero, spesso rancoroso, a Dio, il cui progetto creativo è accusato di irrazionalità e incoerenza; un feroce attacco al bigottismo e all’ipocrisia dei religiosi. Nella sua poesia echeggia la tradizione greca e per temi e misura le sue quartine ricordano i frammenti di Callimaco o gli epigrammi di Meleagro e Paolo Silenziario, autori raccolti nell’Antologia Palatina compilata a Bisanzio intorno all’anno mille e che raccoglie il corpus lirico e filosofico di autori vissuti fino a mille anni prima. E’ possibile che tale opera sia giunta nelle mani di Khayyam attraverso quella rete di contatti, commerciali e culturali, che l’impero bizantino coltivava con l’oriente. Il tema del vino, della caducità dell’esistenza e dell’importanza dell’attimo presente, sono topoi ricorrenti sia nell’epigrammatica greca che nelle quartine di Khayyam. Una strada percorsa anche da un altro grande poeta persiano, Hafez, vissuto duecento anni dopo, e che dura fino ad oggi, se leggiamo i brevi componimenti di Abbas Kiarostami a testimoniare il legame inscindibile tra l’antica Persia e il moderno Iran. Un legame che il regime degli ajatollah vuole distruggere, seppur invano, perché l’Iran di oggi non regge il confronto con la Persia antica che vive nelle menti degli attuali cittadini iraniani. Meglio quindi censurare, come fatto con le quartine di Khayyam, tutto ciò che rammenti al popolo un’indentità diversa da quella imposta dal regime ultrareligioso. Ma proprio quell’antica cultura potrà forse essere il serbatoio da cui trarre la linfa per superare il moderno regime.
Qui di seguito vengono riportate alcune delle quartine più belle di Omar Khayyam:
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Il chiaro di luna ha forato di luce la veste della notte:
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Ber vino e starsene lieti: il Rito nostro è questo.
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Bevi vino, ché vita eterna è questa vita mortale,
E questo è tutto quello ch’hai della tua giovinezza;
e non perderti in lacrime sul domani che viene:
su passato e futuro non far fondamento
vivi dell’oggi e non perdere al vento la vita.