“Madre, stai allattando un nemico. Strangolalo”. C’è una storia che si racconta poco, una pulizia etnica dimenticata nel cuore d’Europa. Era il 1939 e la Seconda guerra mondiale era appena cominciata. Nelle province di Galizia e Volinia, parte dello stato polacco fino all’invasione nazista, vivevano ucraini e polacchi. A dividerli poco o nulla, gli ucraini erano greco-cattolici, i polacchi cattolici romani. Per i polacchi, si trattava di un materiale demografico etnicamente assimilabile ma opposta era la visione ucraina. Dai pulpiti delle chiese greco-cattoliche cominciarono a tuonare anatemi contro i matrimoni misti e contro i polacchi “oppressori”. In quel 1939 la Polonia venne invasa dai tedeschi e dai sovietici, in ottemperanza al patto Molotov-Ribbentrop, e fu spartita tra le due potenze. Ma durò poco. Nel 1941 l’Operazione Barbarossa portò le truppe di Hitler ad invadere la Russia di Stalin.
Gli ucraini pensarono che finalmente erano maturi i tempi per uno stato nazionale ucraino. Fin dal 1929 era attivo l’Oun (Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini) che in quel 1941 decise di allearsi con i nazisti per cacciare i russi dall’Ucraina e fondare, con l’avallo germanico, uno stato indipendente ucraino. Per i nazionalisti dell’Oun i territori di Galizia e Volinia erano essenzialmente ucraini. Di diverso avviso erano i polacchi riuniti nell’Armia Krajowa, l’esercito clandestino di liberazione. Per loro la Galizia era storicamente una regione polacca. I polacchi si trovarono così a combattere contro i nazisti e contro l’Oun che, dal canto suo, reagì sterminando la popolazione civile colpevole di “dare sostegno” all’Armia Krajowa. Con i polacchi vennero uccisi anche gli ebrei, naturalmente.
A Buczacz, piccola località a maggioranza polacca, la notte fra il 5 e il 6 luglio 1944, fecero irruzione i nazionalisti ucraini al grido di “rizaty, palyty” (uccidi, brucia): le donne e i bambini furono uccisi a colpi d’ascia, le case furono date alle fiamme, al prete fu tagliata la gola. L’11 luglio del 1943 l’Upa attaccò almeno ottanta località e uccise circa diecimila polacchi, dando fuoco alle case, uccidendo a colpi di falci e forconi. Corpi di polacchi vennero appesi alle case, crocifissi, sventrati, decapitati o smembrati. Ma ormai la guerra nazista era perduta e i sovietici stavano arrivando. La popolazione civile vide nell’arrivo dei sovietici la fine dell’incubo e si organizzò in comitati di autodifesa chiedendo le armi, paradossalmente, proprio ai nazisti che si ritiravano. La guerra si tradusse in “tutti contro tutti”: i partigiani dell’Armia Krajowa contro nazisti, sovietici e ucraini; i nazionalisti dell’Oun (nel frattempo divenuto Upa) contro tedeschi (colpevoli di aver tradito le speranze ucraine) e sovietici; Armata rossa contro nazisti, partigiani polacchi e nazionalisti ucraini. Ma i russi, come già in altre occasioni, attesero che le parti si scannassero per bene prima di intervenire.
A guerra conclusa circa un milione e mezzo di ucraini si ritrovò nei confini della “nuova” Polonia disegnata a Yalta. In settecentomila emigrarono verso la “nuova” Ucraina sovietica, altrettanti rimasero e per loro fu l’inferno. All’inizio del 1945 lo Stato polacco negò loro il diritto alle terre e furono chiuse le loro scuole. Successivamente i giovani che non si erano registrati per il rimpatrio “volontario” in Ucraina furono arrestati. Nell’aprile 1946 tre divisioni di fanteria del Gruppo operativo Rzeszow rastrellarono i villaggi a maggioranza ucraina ritenuti colpevoli di aver appoggiato l’Upa, sterminandone la popolazione e deportando i superstiti. Nel 1947 lo Stato Maggiore polacco riteneva risolto il problema ucraino e chiese al Politburo di poter eliminare i “residui”. Si optò invece per una “ricollocazione”, ovvero una deportazione nei “territori riacquistati” della Polonia occidentale che, fino al 1945, erano tedeschi. La pulizia etnica polacca contro gli ucraini aveva un nome: Operazione Wisla. La parola “pulizia” appare anche in alcuni documenti ufficiali. Lo scopo era impedire il risorgere di comunità ucraine in Polonia. Tra gli ufficiali coinvolti c’era un giovane Wojcech Jaruzelski.