La soluzione della secolare questione tedesca all’interno del processo d’integrazione europea è “la storia di un successo, ma anche di un tentativo fallito di arrestare il declino del vecchio continente“. Così sostiene Gabriele D’Ottavio, autore di L’Europa dei Tedeschi (Il Mulino, 2013), saggio sulla Repubblica Federale Tedesca e l’integrazione europea dal 1949 al 1966, che ne ha discusso a Trento, il 20 marzo, con Paolo Pombeni e Mark Gilbert.
La Germania che entra nei negoziati che porteranno ai trattati di Roma è un paese sconfitto, condannato moralmente, e spaccato a metà dalla guerra fredda. La questione europea, per la Germania, è il tentativo di trovare una tutela della propria unità ed occidentalità, contro il rischio di inglobalmento nel sistema sovietico o di neutralizzazione, come proposto da Stalin negli anni ’50. La politica occidentale di Adenauer (“Westernizierung”), volta alla ricostituzione del “soggetto Europa”, resta una scelta ambigua. Se l’Europa, e la Germania, vogliono ritrovare uno status di potenza, esse devono completare l’unificazione continentale, poiché nel mondo nuovo del dopoguerra post-coloniale le grandi potenze si riconoscono ancora per il loro grande territorio.
Quale Europa per la Germania divisa? Tre fasi
Le fasi del rapporto tra la Germania e la costruzione europea sono tre. Tra il 1949 e il 1958, l’obiettivo di Bonn è di riconquistare un’identità e un “posto al sole” come una nazione tra le altre in Europa. Fino al 1955, infatti, alla RFT viene negata la personalità internazionale. Ciò è possibile solo in partenariato con l’unica potenza continentale europea rimasta, quella Francia che ha “finto” di aver vinto la seconda guerra mondiale ma che resta un paese devastato dal conflitto e insicuro nei suoi rapporti col nuovo vicino tedesco.
La seconda fase, dal 1958 al 1963, è segnata dal fenomeno De Gaulle, che conduce la Francia ad una nuova assertività e ritiene di poter utilizzare il progetto di integrazione europea per la costruzione di una “terza forza” tra i due blocchi, recuperando quello status di grande potenza cui Parigi non ha mai davvero rinunciato. Il problema dell’ormai anziano Adenauer, “der Alter” – che non resta “incantato” dal carisma di De Gaulle, come vorrebbero alcuni, ma pensa piuttosto a come sfruttare lo slancio del vicino – è che la Germania non può permettersi di rompere con quegli Stati Uniti che non apprezzano il gaullismo (già l’Economist aveva denunciato De Gaulle come un risorgere del fascismo in Europa, mentre Mortati aveva visto nella Costituzione della Quinta Repubblica qualcosa che andava oltre ai modelli del costituzionalismo continentale europeo). Tuttavia, lo stesso Adenauer è sempre più convinto che gli Stati Uniti non siano più una garanzia sufficiente per la Germania, soprattutto a seguito della gestione delle crisi del muro di Berlino e di Cuba da parte dell’amministrazione Kennedy. Nasce allora la spaccatura interna alla CDU tra “gaullisti” e “atlantisti” che segnerà tutto il periodo successivo.
La terza fase, dal 1963 al 1966, vede la successione di Ludwig Erhard, l’uomo del miracolo economico tedesco, ad Adenauer, e la prevalenza della corrente atlantista a Bonn, nel contesto della prima crisi economica postbellica, in cui il tasso di crescita del PIL scende al +5% annuo (una manna, per i criteri odierni, ma una brusca frenata per gli standard dei “trenta gloriosi”)
Europa dell’economia, Europa dell’identità
In filigrana, all’interno di tutto il periodo, appaiono due significati fondamentali dell’Europa per la Germania Ovest. Il primo è economico: l’Europa è intesa come grande zona di libero scambio, che secondo Erhard deve quindi necessariamente includere anche il Regno Unito e i paesi dell’EFTA. Il miracolo economico postbellico è sostenuto anche dalla Comunità europea: la Politica agricola comune (PAC) permette che uno dei maggiori fenomeni di trasformazione sociale del periodo, l’industrializzazione e la meccanizzazione dell’agricoltura, avvenga nei sei paesi fondatori senza creare scompensi sociali.
Il secondo significato fondamentale è identitario. La partecipazione dei tedeschi alla costruzione dell’Europa è gestita come fondamento di una nuova identità nazionale. Come aveva affermato Thomas Mann: “non vogliamo un’Europa tedesca, ma una Germania europea”. In un momento di scontro ideologico interno tra SPD e CDU, tale idea viene accettata consensualmente da entrambe le parti politiche, terreno d’incontro tra lo sciovinismo occidentalista della CDU e il neutralismo della SPD, ponendo una tra le basi (assieme a Bad Godesberg) che porteranno alla piccola Grosse Koalition del 1966.
Verso l’Europa dei tedeschi?
La vera Europa dei tedeschi nascerà poco dopo, a partire dagli anni ’70, quando con la fine del sistema di Bretton Woods la Germania si ritroverà, volente o nolente, come punto di riferimento economico e monetario per un’Europa che non può più contare sul dollaro. La crisi seguita allo shock petrolifero rivelerà la Germania federale, guidata dai governi Schmidt, come economia dominante e leadership europea, dotata di quelle ricette considerate giuste per fronteggiare la crisi. Il limite fondamentale della leadership tedesca in Europa, tuttavia, resterà nella mancanza di un largo consenso sociale e politico all’esportazione continentale del proprio modello economico e monetario (quando non anche sociale), com’era avvenuto invece per gli Stati Uniti durante i trent’anni del boom economico.
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