Intervista con Laura Halilovic, tra la gabbia e il cielo

“Un giorno metti la pentola a bollire sul fuoco, e sei in un posto. Quando l’acqua bolle sei in un altro. Quando la pasta cuoce in un altro, e la mangi chissà dove”. Con queste parole la vecchia nonna di Laura Halilovic commenta lo sgombero che la polizia ha imposto al campo nomadi in cui si trova. Laura, dal canto suo, ne ha fatto un film: “Io la mia famiglia Rom e Woody Allen”, in cui racconta la sua vita e quella dei suoi cari, tra discriminazioni e vita quotidiana.

Il titolo è una citazione proprio di un film di Woody Allen. Il cineasta americano ha letteralmente folgorato la piccola Laura che, ancora bambina, si trovò da allora a coltivare un sogno: fare la regista. Oggi, con questo film documentario prodotto in collaborazione con RaiTre Film Commission Torino, quel sogno è diventato realtà.

A META’ TRA DUE CULTURE

«Da quando ho fatto questo film molti si interessano a me. Certo, il pericolo è che lo facciano solo perché sono Rom, che mi mettano addosso quest’etichetta e ci si interessi a me perché “diversa”».
Una diversità che le viene additata anche dalla sua comunità: «Sono diversa per gli italiani e sono diversa per i Rom perché non voglio vivere secondo la nostra tradizione e non intendo sposarmi per realizzare “il mio futuro”». Proprio con queste parole infatti i genitori di Laura, nel documentario, la spingono al matrimonio: “Sei già vecchia, hai 19 anni”, le dicono. «Così mi trovo a metà tra due culture, in bilico – prosegue Laura – e certo è una sofferenza, è una situazione che vivo malissimo».
Ma la giovane regista ha le spalle larghe e con tenacia procede nel suo cammino umano e artistico: «Anche la mia famiglia ora si è convinta, ma all’inizio è stata dura poiché una ragazza Rom non può studiare e nemmeno lavorare, può solo sposarsi».

LIBERTA’ E PRIGIONIA

Nata a Torino, Laura ha vissuto nel campo vicino all’aeroporto di Caselle fino all’età di otto anni. Poi la sua famiglia ottiene una casa popolare dove vanno a vivere in nove: lei e i suoi quattro fratelli, i genitori e due cognati. Della vita del campo resta un ricordo indelebile di libertà e prigionia al contempo: «Mi ricordo la libertà, noi bambini stavamo sempre in giro nel campo, solo il cielo a farci da confine. Ma ricordo anche il filo e la rete che delimitavano il campo, eravamo come animali in gabbia». Le difficoltà coi “Gagé” – i non Rom – iniziarono con la scuola: «Ricordo la mia felicità, il primo giorno. E ricordo come gli altri genitori commentassero: “Ci mancava anche la zingarella”. Quel giorno non parlai con nessuno e corsi via appena la campanella suonò».

INTEGRAZIONE NON E’ ESSERE TUTTI UGUALI

Questo dolore è quello che, secondo Laura, farà sempre sentire i Rom inferiori. Un’inferiorità interiorizzata a tal punto da renderli incapaci di rivendicare i loro diritti. «E non cambierà mai. Come mai cambierà l’atteggiamento dei Gagé che continueranno sempre a disprezzarci.Un’integrazione è impossibile». Poi, con un sospiro: «Integrazione non è essere tutti uguali, non è –per un Rom – diventare Gagé. I Rom non vogliono diventare Gagé. Se non ci fosse più diversità, nel futuro, forse non ci sarebbe più discriminazione. Ma poi saremmo tutti più poveri».
Nella parole di Laura echeggia la saggezza della vecchia nonna, che nel film è il simbolo di unacultura antica, modellata dai secoli e dai chilometri percorsi da questo popolo nomade. «Quando mi dicono: “vai a casa tua” io mi domando qual è la mia casa, la casa di un nomade è ovunque». Laura non nasconde che ci siano dei problemi: «Le persone però non devono fare di tutta l’erba un fascio, tra di noi siamo diversi. Tra un Rom Romeno e uno bosniaco c’è differenza, ad esempio. Non conoscono la nostra cultura». E davvero è arduo conoscere la cultura Rom, il film di Laura è un ponte per la reciproca conoscenza. Forse così sarà possibile capire che: «Non è vero che i Rom sono tutti ladri e delinquenti». “Quando un Rom fa un reato, a venire puniti sono tutti i Rom” si dice nel film.

CASETTE IN FILA

E Laura fa un agghiacciante parallelismo: «Quando vedo le casette in fila, tutte uguali, del nuovo campo di via Germanasca a Torino, con un recinto di ferro intorno alto tre metri, mi vengono in mente i campi di concentramento dove sono morti i miei bisnonni». Già, poiché molti dimenticano che, insieme agli ebrei, ad Auschwitz trovarono la morte milioni di zingari. «Se mai incontrassi Woody Allen di persona – conclude Laura – gli chiederei come ha vissuto il suo essere ebreo. E come ne ha fatto una risorsa».

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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