Una lunga guerra per conquistare l’indipendenza, la permanenza dei britannici nel nord est dell’isola, il prolungarsi di un sanguinoso conflitto e poi gli Accordi del Venerdì Santo firmati il 10 aprile 1998. Quel giorno sembrava aprirsi una nuova stagione per l’Irlanda. Ma nonostante tutto, e nonostante i media italiani non ne parlino quasi mai, il nord dell’isola è tutt’altro che pacificato. Chiunque abbia visitato Belfast negli ultimi anni si è accorto che la situazione rimane tesa, molto delicata e soprattutto ancora in divenire.
Ne abbiamo parlato con Riccardo Michelucci, giornalista di Avvenire di 43 anni, esperto e amante dell’Irlanda, e soprattutto autore del libro Storia del conflitto anglo-irlandese. Otto secoli di persecuzione inglese.
Partiamo dall’inizio: quanto la guerra civile in Irlanda del Nord può essere inquadrata come lotta religiosa (cattolici contro protestanti), nazionale (britannici contro irlandesi) o come sociale (classe abbiente contro povera)?
La storia del conflitto anglo-irlandese è molto lunga e complessa ed è assai difficile catalogarla in modo corretto. Se ci riferiamo solo all’ultima fase del conflitto, quella scoppiata intorno al 1969 in seguito alla repressione delle legittime rivendicazioni dei cattolico-nazionalisti del Nord Irlanda, allora direi che possiamo parlare appropriatamente di un conflitto politico sfociato in una guerra a bassa intensità, che ha avuto ben poco di “religioso” e viceversa molte componenti sociali, economiche e anche etnico-nazionali. La definizione di “guerra di religione” credo che sia la più fuorviante anche guardando a ritroso le plurisecolari radici del conflitto. Nei fatidici otto secoli che ho cercato di sintetizzare nel mio libro, l’unico periodo nel quale l’appartenenza confessionale ha giocato un ruolo davvero rilevante è quello tra il XVI e il XVIII secolo, dallo scisma anglicano di Enrico VIII alle grandi colonizzazioni dell’era Tudor. Ma dalla nascita di quel movimento interconfessionale ispirato ai valori della Rivoluzione francese che dette vita al repubblicanesimo irlandese, e a maggior ragione nel XX secolo, la componente religiosa non è mai stata determinante. Anzi è stata un facile elemento per gettare fumo negli occhi a vantaggio delle ragioni degli inglesi, che hanno sempre cercato di porsi come pacificatori in un contesto che hanno invece creato e alimentato fino all’incancrenimento.
Dopo decenni di violenze, le fazioni principali sono arrivate al “Good Friday Agreement” nel 1998. Tuttavia da 3 o 4 anni gli scontri sono tornati a farsi sentire. Come mai?
In realtà dopo la firma dell’accordo ci sono state anche fasi più cruente, basti pensare alla strage di Omagh che risale all’agosto 1998 e agli omicidi politici di inizio anni 2000. Non c’è dubbio però che anche in questi ultimi anni vi siano state recrudescenze importanti. Diciamo che da una parte il Good Friday Agrement comincia a far sentire il peso della sua incompiutezza e dall’altra la crisi economica che in Irlanda sta colpendo duramente contribuiscono a esasperare gli animi specie tra le classi meno abbienti.
Perché continuano a combattere le persone che ancora non si sono “arrese alla pace”?
Ci sono persone e gruppi, da entrambe le parti, che non hanno mai accettato l’accordo del 1998. Tra i repubblicani si è creata una frattura grave e alcuni non si riconoscono più in quello che un tempo era il partito di riferimento per gli indipendentisti irlandesi, cioè il Sinn Féin. Gerry Adams, Martin McGuinness e la vecchia leadership vengono accusati di aver svenduto gli antichi ideali in cambio delle poltrone e del potere politico. In effetti i due capisaldi che un tempo erano considerati imprescindibili (il ritiro completo delle truppe britanniche e la riunificazione dell’isola) non sono stati raggiunti. A queste sacrosante rivendicazioni è stato in un certo senso messa la sordina con il benessere economico. Nonostante la crisi, infatti, a Belfast e nel resto del paese c’è una ricchezza che non è paragonabile alla miseria degli anni del conflitto, anche se ciò non ha impedito il sorgere di crescenti malumori all’interno della base del movimento, sfociate in alcuni casi anche in rigurgiti di violenza. Dall’altra parte, gli unionisti filobritannici si sentono da tempo “traditi” dalla matrigna inglese, che li ha storicamente usati per giustificare la sua presenza coloniale in Irlanda, per poi lasciarli al proprio destino. Per molti unionisti dell’Irlanda del Nord esiste un serio problema d’identità – non si sentono completamente né irlandesi, né inglesi – e la recente questione della bandiera rimossa dal municipio di Belfast, la fleg protest, ha in un certo senso scatenato in loro quasi un reazione pavloviana di attaccamento a radici indotte da un tragico passato coloniale.
In campo repubblicano ci sono due o tre piccole formazioni nate da scissioni, come la Real Ira e la Continuity Ira, che non hanno deposto le armi e continuano la lotta con attentati e scontri a fuoco. Qual è la reale portata di questi gruppi?
Sono gruppi numericamente assai esigui e dalla scarsa popolarità. La gente è davvero stufa della guerra e, anche chi è scontento degli accordi, preferisce in gran parte dissentire senza sparare. Ciò non toglie che le azioni delle fazioni armate possano avere effetti letali, come purtroppo è accaduto anche in tempi recenti. La loro potenza di fuoco e la loro organizzazione ha però ben poco di paragonabile a quella di cui disponeva la Provisional Ira negli anni del conflitto.
Luglio 2012: l’Army Council rende nota la nascita di un nuovo gruppo armato che si autodefinisce Irish Republican Army. Contemporaneamente compaiono scritte sui muri di Derry: “Ira – Siamo tornati”. Nella nuova Ira sono confluiti la Real Ira, il Raad (Republican action against drugs) e il gruppo fuoriuscito dalla Provisional Ira responsabile dell’omicidio dell’agente cattolico Ronan Kerr nell’aprile 2011. Quanto è forte questa nuova formazione? E perché la Continuity Ira non ha aderito?
Anche qui vale quanto già detto. L’annuncio dell’estate scorsa circa la nascita di una “nuova” Ira è stato fatto per conquistare qualche titolo di giornale, e per quanto riguarda le scritte, a volte basta una bomboletta spray e la fotografia di una scritta sul muro per fare un po’ di clamore. La Continuity Ira, che pure si è sempre detta contraria all’accordo di pace, non ha aderito perché il suo partito di riferimento, Republican Sinn Féin, non ha voluto. E non è stata neanche l’unica: anche il gruppo che si fa chiamare Oglach na hÉireann non ha aderito, a riprova del fatto che neanche tra le piccole fazioni dissidenti c’è grande unità.
Quanto è ancora appoggiata o favorita la lotta armata dalla popolazione?
Come dicevo prima, la sensazione è che la maggior parte delle persone, da una parte e dall’altra, si sia abituata alla pace. Certo, si tratta di una pace imperfetta, perché tuttora priva di una vera e profonda riconciliazione. Ma è sempre meglio della guerra, specie per chi in guerra ci è magari nato o trascorso gran parte della sua vita.
In questi ultimi anni pare esserci un maggiore astio (a livello popolare) da parte soprattutto dei protestanti verso i cattolici, che in varie occasioni durante le manifestazioni sono stati attaccati e provocati. Sembra che gli unionisti siano maggiori di numero ma meno cruenti nel tipo di lotta, mentre i cattolici siano di meno ma più armati. Analisi esatta?
I “protestanti” hanno sempre odiato di più i “cattolici” di quanto questi ultimi non abbiano fatto nei confronti dei discendenti degli ex coloni inglesi e scozzesi. Questa differente atmosfera si percepisce chiaramente nei quartieri popolari di Belfast, di Derry, di Armagh e del resto del paese. Le aree “cattoliche” trasudano le rivendicazioni, le aspirazioni e i sogni di un popolo oppresso per secoli. Nella aree “protestanti” si respira invece l’astio e la rabbia di una popolazione sradicata e priva d’identità che rovescia la colpa dei propri problemi su un vicino che considera un alieno. Molti “protestanti” nascono e muoiono senza riuscire a togliersi di dosso la cosiddetta “mentalità dell’assedio”, che li spinge a temere come la peste la riunificazione dell’isola e il loro conseguente ridimensionamento allo status di piccola minoranza in un’Irlanda unita.
Ha citato in precedenza la “fleg protest”, avvenuta nel dicembre e gennaio scorsi, che rappresenta la dimostrazione più recente di quanto sia fragile e anche fittizia la pace in Irlanda del Nord. Ce ne può parlare?
La protesta della bandiera – scoppiata alcune settimane fa in seguito alla decisione del consiglio comunale di Belfast di esporre la bandiera britannica sul municipio non più per 365 giorni l’anno, ma solo per poche ricorrenze – è stata presa come un’intollerabile provocazione proprio perché i più fanatici hanno visto d’un colpo materializzarsi le loro paure. Ovvero una progressiva svolta verso “l’irlandesizzazione” del Nord Irlanda. Ai nostro occhi, nell’Europa unita del terzo millennio, può sembrare ridicolo, eppure in Irlanda i simboli hanno un valore e una potenza evocativa ancora molto forte.
Il 2013 sarà un anno importante. Il 17 e 18 giugno è previsto il summit del G8 nella cittadina di Enniskillen, nella parte ovest dell’Irlanda del Nord. Derry inoltre è stata nominata Capitale britannica della cultura. Ci dovremo attendere nuovi scontri?
Ovviamente spero di non essere smentito dai fatti, però penso proprio di no. O comunque non mi attendo scontri di maggior intensità rispetto ad altri summit simili che si sono svolti in altri paesi europei. Anche la tanto temuta “storica” visita della regina d’Inghilterra nella Repubblica d’Irlanda che si è svolta due anni fa aveva creato non pochi timori di ordine pubblico. Invece poi, dopo un piccolo allarme bomba creato perlopiù a uso e consumo dei media e con qualche centinaio di contestatori tenuto a debita distanza, tutto si svolse nella più completa normalità.