Settant’anni di avanguardia italiana. Poetica, poesia e sperimentalismo

La crisi di fine Ottocento

Alla fine del XIX secolo si apre per la cultura italiana un periodo di crisi determinato da una improvvisa mancanza di punti di riferimento sicuri e sentiti come propri da tutta la comunità intellettuale. Vengono messi in discussione, soprattutto dai più giovani, i princìpi dell’impostazione positivistica degli studi, specie nel campo della critica letteraria. Questo periodo di sbandamenti e incertezze si chiuderà solo col trionfo della sistemazione crociana. I critici più sensibili e maturi prendono così a muoversi all’interno dell’asse DeSanctis-Carducci-Croce conciliandone le varie posizioni, ma per questi l’incontro con l’Estetica crociana non segna un momento di radicale rottura bensì un’occasione di risistemazione e arricchimento dell’esperienza formatasi precedentemente.

Nei giovani questo equilibrio, dato dalla saldezza dell’educazione e dalla sicurezza dei propri valori, viene meno. Il rifiuto delle tre corone di fin de siècle -Carducci, Pascoli, D’Annunzio- si accompagna alla ricerca di sperimentalismo e problematismo. In questa situazione di sbandamento e assenza di sicuri orientamenti teorici, si fa strada l’interessante sperimentalismo antidannunziano di Gian Pietro Lucini: dal punto di vista critico egli teorizza un approccio polivalente all’opera «in una continua mobilità dell’angolazione di lettura e consapevole relatività di giudizio» (Luperini). L’esigenza di Lucini è cogliere la totalità dell’autore nelle sue componenti politiche, morali, sociologiche, non soltanto letterarie. Ecco allora spiegato il recupero del Carducci civilmente irato e politicamente giacobino rispetto alla polemica contro D’Annunzio, Pascoli e Fogazzaro.

Carducci è la cartina tornasole della nuova critica, considerato l’ultimo grande risorgimentale, legato a ideologie umanitarie e civili, rappresentava da un lato l’impegno civile che continuava a vivere negli intellettuali mentre dall’altro veniva identificato col vuoto retorico e criticato nel suo ruolo di vate, che la nuova generazione cominciava ad avvertire come tramontato e distante dalla realtà. È questa la posizione del torinese Enrico Thovez, coetaneo di Lucini, il quale individua in Carducci l’assenza di una sensibilità moderna capace di emanciparlo da una letteratura ancora troppo carica di retorica.

Le riviste fiorentine

La situazione economica e politica si era andata modificando all’inizio del secolo con il decollo della grande industria e la concentrazione al Nord di vasti settori della classe operaia. Il primo decennio del secolo è appunto caratterizzato dall’ascesa di queste due nuove forze sociali: la moderna borghesia industriale e il proletariato organizzato nel partito socialista e nei sindacati.

Ecco allora che gli scrittori nati dopo il settanta e provenienti dalla piccola borghesia urbana e rurale possono aspirare a un nuovo mandato sociale, facendosi portavoci, diretti o indiretti, consapevoli o inconsapevoli, delle esigenze innovatrici della moderna borghesia attraverso riviste culturali e politiche rivolte a un pubblico piccolo borghese ma talvolta capaci di penetrare nei ceti operai. L’esigenza di impegno che tutte le riviste giovanili mostrano nei primi anni del secolo fino allo scoppio della guerra mondiale nasce proprio dalla coscienza che gli intellettuali possono, in quanto tali, avere ancora una funzione e una capacità di rinnovamento. I «giovani» (poiché tali si proclamavano questi nuovi scrittori) si muovono dunque come un’avanguardia intellettuale borghese, sia sul piano culturale e artistico -per distruggere l’obsoleto impianto della cultura positivistica- sia su quello politico -per spronare la borghesia italiana ad attuare una politica più audace e aggressiva- ricoprendo uno spazio che verrà schiacciato soltanto dalla guerra e poi dal fascismo. È interessante notare come proprio in seno a questi gruppi impegnati, d’estrazione borghese e che alla borghesia si rivolgevano, si svilupperà una radicale polemica antiborghese. Ma se è vero che l’atmosfera dominante è quella del nazionalismo e che queste riviste si muovono ancora sotto il dominio ideologico della borghesia, è anche vero che questi erano intellettuali in crisi, incapaci di accontentarsi di etichettature liquidatorie, figli di quel loro tempo di sbandamento e trapasso, privi di qualsiasi sistema che servisse loro da riparo. Si forma così tutta una generazione di scrittori fra i più significativi del Novecento: da Sbarbaro a Campana, da Rebora a Boine, da Slataper a Jahier e Michelstaedter.

La crisi dei valori ottocenteschi e l’assenza di una reale alternativa -neppure il sistema crociano infatti soddisfaceva appieno quei giovani che vedevano nell’Estetica e nella fondazione della rivista «La critica» (1903) un’ulteriore misura del conservatorismo imperante- portò alla formazione di due tendenze culturali fra loro divergenti e incrocianti: la tendenza antipositivistica, volta a valorizzare il momento intuitivo, puro, alogico della creazione artistica; la tendenza razionalistica e laica, che induceva ad un impegno contro l’irrazionalismo e il decadentismo. Si può vedere come la prima preluda a quella che sarà di lì a poco l’esperienza dadaista e surrealista, mentre la seconda sembra preannunciare la svolta futurista. L’avventura papiniana e prezzoliniana del «Leonardo» si inserisce in prevalenza all’interno della prima tendenza, la rivista nacque nel gennaio del 1903 e i suoi due direttori poco più che ventenni, ancora infarciti di superomismo dannunziano, suscitarono l’aperta simpatia dello stesso Croce.

Un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi d’universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale si son raccolti in Firenze sotto il simbolico nome augurale di «Leonardo» per intensificare la propria esistenza, elevare il proprio pensiero, esaltare la propria arte.

Nella VITA son pagani e individualisti –amanti della bellezza e dell’intelligenza, adoratori della profonda natura e della vita piena, nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea.

Nel PENSIERO sono personalisti e idealisti, cioè superiori ad ogni sistema e ad ogni limite, convinti che ogni filosofia non è che un personal modo di vita –negatori di ogni altra esistenza di fuor dal pensiero.

Nell’ARTE amano la trasfigurazione ideale della vita e ne combattono le forme inferiori, aspirano alla bellezza come suggestiva figurazione e rivelazione di una vita profonda e serena.

In questo programma sintetico lo stile, estremamente enfatico, non riesce a nascondere l’estrema genericità dei propositi e del programma culturale della rivista che evidentemente nacque da velleità intellettuali e aspirazioni ancora confuse. L’unico elemento chiaro è la volontà di rottura col passato sia sul piano artistico che sul piano politico e filosofico, ma un’eccessiva severità di giudizio sarebbe del tutto fuori luogo vista l’età dei due giovani direttori, testimoniata dagli pseudonimi con cui si firmavano: Gian Falco nel caso di Papini e Giuliano il sofista invece Prezzolini. L’individualismo, il nazionalismo, l’antidemocrazia, portarono poi Papini e Prezzolini a collaborare col nazionalista «Il Regno», fondato anch’esso nel 1903 da Enrico Corradini già direttore del «Marzocco». Nell’articolo programmatico che apparve nel novembre di quell’anno appaiono chiare le istanze corradiniane e le linee guida del «Regno»: vi si ritrovano i temi del nascente nazionalismo, l’imperialismo, il colonialismo, l’antisocialismo, l’avversione per la democrazia, l’esaltazione della guerra. La volontà politica si esplicita nel tentativo di attrarre il popolo inserendolo nell’entità della nazione creando un blocco sociale interclassista che fa capo a una borghesia antiproletaria che vede negli operai la «feccia» che disgrega la nazione. Corradini è ancora un letterato dannunziano che si rivolge a una élite culturale alla quale si rivolge con accenti fortemente retorici. Più tardi, coi futuristi e coi lacerbiani e poi coi fascisti, la retorica andrà acompagnandosi ad un linguaggio sempre più plebeo e demagogico che risponderà alle esigenze di una politica di massa, propria di queste forze. La necessità di svecchiare il linguaggio verrà avvertita anche dalla «Voce» che, nel suo primo tempo, cercherà, partendo da posizioni democratiche, di renderlo più agile ed accessibile.

Una funzione analoga a quella di «Leonardo» e del «Regno» ebbe «Hermes», fondata nel 1904 da Giuseppe Antonio Borgese con una dichiarazione iniziale che non lasciava dubbi: «Ci dichiariamo idealisti in filosofia, aristocratici in arte, individualisti nella vita. Siamo pagani e dannunziani. Ci siamo rivolti a Enrico Corradini perché egli è fra i pochissimi che abbiano un cuore e un cervello nelle bavosa generazione che ci ha preceduti; ci gloriamo dell’aiuto di Gabriele D’Annunzio perché sappiamo di derivar tutto da lui». La rivista però non ebbe né la precisa funzione politica del «Regno» né il ruolo culturale e l’apertura europea di «Leonardo».

I temi e motivi di queste prime riviste si somigliano tutti, incrociando tra loro le diverse esperienze, con collaborazioni e passaggi da un gruppo all’altro, questi giovani e inquieti intellettuali animano la fase più magmatica del Novecento letterario italiano. L’esaltazione della guerra e il nazionalismo, che si rovesceranno poi in toto nel marinettismo, le dichiarazioni d’individualismo, che certo non cozzano contro la riduzione dell’io di marca futurista, l’idealismo abbracciato in chiave antipositivistica, il superomismo pagano, ma anche la volontà di rovesciare i contenuti dell’arte tradizionale, cercando in essa la rivelazione della vita profonda, prefigurando il giocoso carnevale dada (già palazzeschiano) e i chimismi psichici del surrealismo. «Leonardo», «Regno» e «Hermes» condividono in genere gli stessi obiettivi «siamo accomunati dall’odio, più dalle forze nemiche che dalle nostre» ma vivono una profonda eterogeneità interna nella quale convivono differenti contaminazioni culturali. Questo non deve stupire in un’Italia culturalmente arretrata, animata da un forte desiderio di svecchiamento, con una impazienza culturale anche rivolta al sociale. La frenesia non può che portare all’eclettismo, tipico per una cultura in cammino come quella italiana ancora troppo libresca e letteraria, poco compromessa con la realtà: i poeti vengono allora invitati ad uscire dal tipico isolazionismo e aprire le finestre. Questo desiderio di compromettere la letteratura con l’impegno sociale segna le premesse su cui si fonderà la nascita della «Voce».

È proprio questo tentativo di indagine concreta da parte degli scrittori che costituisce la parte più viva e interessante della prima «Voce» e che la induce al rifiuto della retorica del «Leonardo» e del «Regno» e all’esame attento dei problemi sociali, economici e culturali della società contemporanea, condotto sempre con spirito antiaccademico e con linguaggio svelto, moderno e incisivo. In questo senso acquistano particolare rilievo certe inchieste e campagne politiche come quella sulla famiglia (i vociani erano per il divorzio) e sui problemi sessuali, l’interesse per la questione meridionale e per la religione e religiosità (due temi che saranno cari a Gobetti il quale dirà, a proposito della religiosità, che «l’Italia non ha spirito interiore perché non ha vissuto la Riforma protestante che sola può dare quel sentire interiore dello Stato», affermazione che non deve stupire vista la collaborazione con la rivista del protestantesimo italiano «Coscentia» riconoscendovi «un’esigenza di protestantesimo come noviziato di libertà, di serietà morale, di educazione moderna»). In questa prima fase la rivista si avvale di collaboratori di origini diverse, a volte in scontro tra loro, ma animati dal comune desiderio di riformismo: liberali come Amendola ed Einaudi, Croce e persino l’antigiolittiano Salvemini che nel 1911, dopo l’appoggio dato alla guerra di Libia, lascerà la rivista per fondare «L’Unità». Questa linea politico-culturale corrispondeva ad un programma così esposto da Prezzolini nel secondo numero della «Voce»:

Che cosa promettiamo?

 

Non promettiamo di essere geni, di sviscerare il mistero del mondo e di determinare il preciso e quotidiano menù delle azioni che occorrono per diventare grandi uomini. Ma promettiamo di essere onesti e sinceri. […]

Intendiamo star sempre al sodo, e cercar di rendere fruttiferi i campi abbandonati, senza coprirli, con lo sdegno di un torrente, di ghiaia e di melma; intendiamo di innestare i tronchi selvatici e di non usare soltanto l’accetta. […] Di lavorare abbiamo voglia. Già proponiamo di tener dietro a certi movimenti sociali che si complicano di ideologie, come il modernismo e il sindacalismo; di informare, senza troppa smania di novità, di quel che di meglio si fa all’estero; di proporre riforme e miglioramenti alle biblioteche pubbliche; di occuparci della crisi morale delle università italiane […]. Col pubblico vogliamo stare in contatto soprattutto con quello delle province e dei piccoli centri e delle campagne, dove si respira aria meno scettica che nelle mezze grandi città d’Italia.

In questa prima «Voce» la personalità dominante, come ideologo e scrittore politico, è quella di Gaetano Salvemini che influenza in modo determinante tutta la problematica della rivista portandola a prendere posizioni antigiolittiane riguardo alla questione meridionale e alla guerra di Libia. Uscito Salvemini cominciano a riemergere le tendenze nazionalistiche dei due ex-direttori del Leonardo: a poco a poco Papini, che prende per un breve periodo la direzione attraverso il manifesto Dacci oggi la nostra poesia quotidiana, e Prezzolini, che la guiderà fino al 1914 quando passerà a DeRobertis, si vedono abbandonati anche da Amendola, Slataper e persino Boine che arriverà a dire che «la Voce ha cessato di essere la viva la libera la intelligente espressione di un gruppo di uomini colti ed onesti e diventa l’organo di propaganda incessante di una semisetta di benintenzionati che hanno quattro dogmi fissati, quattro giacobinerie sentimentali da imporre». La trasformazione della «Voce»  in «rivista dell’idealismo militante», come recitava il sottotitolo del primo numero della nuova serie, fu opera del solo Prezzolini perché già nel gennaio del 1913 Papini e Soffici avevano dato vita per proprio conto a «Lacerba» (1913-1915).

«Lacerba» ebbe un ruolo letterario proprio nel diffondere il futurismo italiano e nell’affrontare questioni di moderna avanguardia artistica, sul piano politico però sono ancora evidenti, oltre ai motivi futuristi, echi delle vecchie posizioni papiniane del «Leonardo». Così nell’ Introibo assistiamo a quell’esaltazione dell’individualismo, del genio artistico, della stranezza estetica che già furono del «Leonardo», mentre la professione di fede nella poetica del frammento sembra più che altro d’ascendenza vociana. In un primo momento, dunque, la rivista mostra la sua peculiarità eminentemente letteraria tanto che lo stesso Papini arriverà a firmare un articolo dal titolo Freghiamoci della politica. Ma col profilarsi della guerra la situazione muta di colpo e la rivista viene ad assumere accese posizioni interventiste passando così ad un esclusivo impegno politico di tipo nazionalistico. Ancora Papini allora scriverà, nel secondo numero del 1914, un articolo dal titolo Amiamo la guerra! basato sul mito letterario futurista della «guerra sola igiene del mondo». Non devono stupire questi mutamenti repentini di Papini che, si è visto, sono la marca distintiva del suo essere intellettuale engagé fin dai tempi di «Leonardo» tanto che egli arriverà a sostenere, nell’Introibo programmatico di «Lacerba», che «chi non riconosce agli uomini d’ingegno, agli inseguitori, agli artisti il pieno diritto di contraddirsi da un giorno all’altro non è degno di guardarli» dove gli “inseguitori” sono coloro che ricercano la verità, una verità ineffabile che, perennemente rincorsa, mai viene raggiunta e che è un tutt’uno con il “moderno” avanguardistico futurista in cui la verità e la velocità coincidono. Il tono è ancora appesantito dall’enfasi retorica ma le sottolineature provocatorie e scandalistiche sono ormai lontane da quella raffinatezza classicheggiante che fu del «Leonardo» o del «Marzocco»; il linguaggio, per rispondere al suo compito di attrazione delle masse, si fa più basso e demagogico. Nel mezzo c’è stato -e si sente- il Manifesto del futurismo.

Dalle riviste ai manifesti -la nascita di un nuovo genere letterario

Accanto alle riviste letterarie, o come conseguenza di queste, si sviluppa un nuovo modo di intendere e sviluppare quella che si può definire dichiarazione di poetica. Se nelle riviste di fine Ottocento la dichiarazione d’intenti e l’esplicitazione delle linee guida si affidavano ancora alla critica letteraria, nei gruppi di giovani intellettuali del primo Novecento si fa più frequente l’uso dell’articolo programmatico nel quale, ricorrendo ad accesi toni retorici, l’intenzione poetica (e politica) viene esplicitata attraverso una serie di punti non problematizzati ma esposti dogmaticamente. Persino la «Voce» che, almeno nel suo primo tempo, sembra volersi allontanare dal dogmatismo retorico, ricorre in La nostra promessa a una schematizzazione in cui i nodi programmatici non sono sciolti da una volontà esplicativa ma espressi attraverso la tensione immaginativa della metafora. In un simile contesto si sviluppa quello che si può a ragione definire un vero e proprio genere letterario a sé stante: il manifesto. Era naturale, d’altronde, in un clima culturale di così grande tensione, in cui la sistemazione dei propri intenti poetici e politici assume un valore programmatico unico e necessario, che la dichiarazione di poetica uscisse dalle colonne delle riviste rivendicando a sé uno spazio nuovo. Il manifesto quindi assume non solo una caratteristica di supporto teorico alla produzione artistica del gruppo (che diventa movimento) ma anche quella di forma immediata d’azione. È un mezzo pubblicitario, non tanto da leggere quanto da declamare e da diffondere in modo spettacolare. Marinetti fu il primo in Italia ad intuire il valore della forma-manifesto in funzione propagandistica. I programmi sono esposti per paragrafi numerati in forma di dogmi, che escludono ogni possibilità di discutere e approfondire le tesi; viene elencato soprattutto ciò che viene rifiutato e poi gli obiettivi da raggiungere, le proposte concrete di rinnovamento; il tono è aggressivo, apodittico, lirico e carico di metafore e analogie. Il contenuto è evidenziato da una grafica che utilizza efficacemente tutte le possibilità tipografiche con l’uso di caratteri di grandezza, forma e colore diversi. Il manifesto sarà la marca di riconoscimento di tutte quelle avanguardie definite storiche: dal futurismo italiano al surrealismo francese, dall’adamismo di Blok e Gumilëv al cubofuturismo di Majakovskij fino all’espressionismo tedesco del Blaue Reiter e di Gottfied Benn.

Caratteri del futurismo italiano

I caratteri e i principi del futurismo, sia in campo poetico che politico, sono universalmente noti, in questa sede pare certo più interessante affrontare quale sia stata l’influenza del futurismo sugli altri movimenti europei, in particolare il dadaismo e il surrealismo, e quali fossero le contraddizioni interne dei singoli movimenti, specie nel rapporto tra poetica e poesia. Troppe volte infatti si è assistito a comportamenti superficiali e analisi eccessivamente sbrigative di fronte all’esperienza futurista, rinnegata per la sua esaltazione della guerra e disprezzo della donna, o peggio liquidata in base a pregiudizi ideologici. A ben guardare il futurismo non è soltanto questo, o meglio, non è proprio questo. L’esaltazione dell’esperienza bellica è il tratto comune di tutta una generazione di giovani, borghesi e intellettuali, che affonda le radici nell’asfittico clima culturale italiano d’inizio secolo. Stanchi di star seduti ai tavolini da caffè, vedendo la propria vita scivolare nell’inedia dei giorni uguali, soffocati dall’Italietta provinciale (D’Annunzio) e culturalmente arretrata, quei giovani sono accorsi ad una guerra in cui cercavano il riscatto dal vuoto esistenziale. E con che entusiasmo si son lanciati verso la falce! Un’esperienza atroce che pure hanno sentito il bisogno di replicare vent’anni dopo, attratti dalle chimere del regime.  L’esaltazione della guerra di matrice futurista è dunque figlia del suo tempo, ma rispondente più all’innata voglia di spontaneità anarchica e sovvertimento sociale, che alla sete di distruzione e di morte. La mitologia della guerra risponde a una volontà costruttiva, all’interno di quell’irrisolta dialettica fra costruens e destruens propria del futurismo. Lo stesso mito della macchina marinettiano si connota per la sua dirompente forza distruttiva entrando in contraddizione con l’accrescimento vitale che il futurismo riconosceva nei valori tecnologici. Questa contraddizione è assunta in toto dal futurismo marinettiano che vede nella macchina il motore della trasformazione del mondo ma allo stesso tempo ne prova oscura paura. La macchina è sempre percepita, a livelli inconsci, come elemento di pericolo e distruttività che collima con l’esperienza bellica. Ecco allora che la divinizzazione della macchina, e la conseguente esaltazione della guerra, diventano la proiezione totemica della paura inconscia, così come i primitivi divinizzavano le forze della natura poiché non risultavano immediatamente riconducibili a una spiegazione razionale.

Alla glorificazione della guerra si accompagna strettamente il disprezzo della donna (entrambi i motivi sono espressi al punto 9 del manifesto di fondazione) ma ciò che si intende colpire è la figura femminile idealizzata, presente nella tradizione letteraria italiana da Dante a Petrarca al Romanticismo. I futuristi sostengono nella loro «euforia fallica» (DeMaria) una visione della donna come oggetto di piacere erotico, come puro strumento di riproduzione futuristica. Marinetti precisa questa misoginia nello scritto Contro l’amore e il parlamentarismo, contenuto in «La guerra sola igiene del mondo» del 1915:

Noi disprezziamo la donna concepita come unico ideale, divino serbatoio d’amore […]. Noi disprezziamo l’orribile e pesante Amore che ostacola la marcia dell’uomo, al quale impedisce di uscire dalla propria umanità, di raddoppiarsi, di superare se stesso […]. Noi siamo convinti che l’amore -sentimentalismo e lussuria- sia la cosa meno naturale del mondo. Non vi è di naturale e d’importante che il coito il quale ha per scopo il futurismo della specie.

Tuttavia in ciò non è da intendersi una posizione antifemministica; al contrario, secondo Marinetti, la donna liberata dalla «passione sentimentale» e dalla «lussuria» sarà in grado di avviarsi verso l’uguaglianza fra i due sessi.

Futurismo-Dada-Surrealismo, elementi comuni

Sgombrato almeno parzialmente il campo da pregiudizi di facile formulazione, occorre ora vedere come e quanto il futurismo abbia influenzato le avanguardie d’oltralpe, dadaismo e surrealismo e quali rapporti intercorrano tra questi movimenti. Fondamentale è l’idea di gruppo, futurismo e surrealismo costituiscono due gruppi fondati sull’affinità elettiva dei componenti. Il caso Dada è particolare, rappresenta -non solo in questo caso- il momento negativo, l’antitesi: formato da tanti «groppuscoli» dislocati nelle varie città (Zurigo, Berlino, Parigi, New York) i cui componenti sono però in continuo movimento, si spostano, si trasferiscono, facendosi messaggeri della rivolta artistica. L’affinità intransigente che anima questi gruppi è una reazione al modo in cui gli uomini stanno insieme nella società industriale, ecco allora che si lavora insieme, si è compagni e amici, ma si può non pensarla allo stesso modo sulle questioni fondamentali. I futuristi, i dadaisti, i surrealisti si oppongono così alla somma di individualismi e al principio di prestazione che dominano la società contemporanea. Il loro è un modello di «serietà ludica» (DeMaria), in cui l’accento deve esser messo ora sul serio ora sul ludico a seconda che si parli di futuristi, surrealisti o dadaisti. Vari leitmotiv ideologici legano, l’uno all’altro, i tre movimenti. Anzitutto l’antipassatismo, la volontà di essere assolutamente moderni a costo di uccidere il padre in nome di un anticonformismo assoluto, nella vita e nell’arte. Il futurismo è certo il più violento nei confronti della letteratura precedente, rinnegando persino D’Annunzio e il simbolismo a cui certo è poeticamente legato. Dada e surrealismo saranno sotto questo aspetto meno brutali. Tzara, nei suoi scritti teorici e critici, si richiama esplicitamente a Rimbaud e Lautremont -e sono nomi che passeranno al pantheon surrealista- ma mostra ascendenze ben più sottili e profonde: «Noi vogliamo continuare la tradizione dell’arte negra, egiziana, bizantina e distruggere in noi l’atavica sensibilità che ci ha trasmesso la detestabile età che ha seguito in Quattrocento». È l’ideale di un arte anonima e cosmica, libera dall’individualismo tipico della civiltà industriale. Si vede come dal futurismo si trasmetta al dada la necessità di liberare l’arte da ogni forma di egolatria, passando dalla riduzione dell’io alll’anonimia. Il surrealismo risponderà alla medesima necessità con il ricorso alla scrittura automatica.

Altro elemento comune è la volontà di combattere la «razionale irrazionalità della società capitalistica» (DeMaria) con l’appello alla follia, all’insensatezza, all’idiozia, all’inconscio, al sogno. La ricerca affannosa del nuovo si inserisce in questa operazione, il nuovo artistico si oppone al sempre uguale delle merci. Le avanguardie storiche si oppongono all’idea di arte tradizionale, vogliono la poesia non la letteratura, una poesia che entri in corto circuito con la vita: «arte-azione» dice Marinetti, «comunione con la vita» riprende Tzara, «praticare la poesia» conclude Breton. E tutti teorizzano un’arte antitradizionale che non si risolve però nella spontaneità anarchica, neanche il dadaismo, anzi si afferma un rigido formalismo e una tecnica precisa. Lo stesso Tzara, nelle sue Lampisteries, invita l’artista alla sobrietà e alla precisione, perché con queste qualità «si continua la tradizione» ed ecco che così anche la spontaneità e l’incoerenza diventano precisa indicazione di formalismo.

Ad accomunare i tre movimenti avanguardistici è anche un’accesa e rabbiosa volontà distruttiva volta però a futura ricostruzione, dice Marinetti: «Siamo imprenditori di demolizioni, ma per ricostruire. Sgombriamo le macerie per poter andare più avanti» e la volontà di futuro si accende di echi futuristi anche in Breton: «Noi vogliamo, noi avremo   l’al di là dei nostri giorni»; solo nel dada prevale la fase destruens senza abbandoni a un ottimismo che sembra ancora di matrice positivistica e illuminista.

Un ultimo tratto che accomuna futurismo e dada ma che non sussiste nel surrealismo è l’elemento antipsicologico unito all’ossessione materialista. Di «riduzione dell’io» e «ossessione lirica della materia» (di matrice bergsoniana, la materia è l’insieme delle immagini percepibili e non corrisponde con la realtà fisica degli oggetti) si parla nel futurismo, mentre Tzara sostiene l’arte fondata sull’ «antipsicologia» in una ricerca di «comunione intima dell’anima con le cose». Come si vede siamo molto distanti dal metalinguaggio surrealista. A proposito di linguaggio, ciò che stava più a cuore e veniva perseguito con ogni forza disponibile era la piena libertà dell’espressione poetica, tra parole in libertà, spontaneità dadaista e scrittura automatica surrealista corre un evidente filo conduttore.

Sperimentalismo e innovazione. Futurismo eterodosso

Proseguendo in questo percorso di smascheramento del futurismo italiano, al fine di considerarlo senza pregiudizi di sorta, mostrandone quei caratteri innovativi che hanno condizionato le altre avanguardie europee, si può vedere come già nel 1911, in un’intervista apparsa sul quotidiano francese «Le Temps», Marinetti abbandona la maschera terroristica dell’incendiario ridimensionando la portata stessa delle sue affermazioni, egli sostiene che: «in Francia tutti gli elementi si fondono. Voi non vi immobilizzate nel passato come in un cimitero. L’arte antica a poco a poco si lascia penetrare dalle nuove nozioni. In Italia non è così. In realtà noi non rinneghiamo il passato ma lo mettiamo al suo posto, che deve essere episodico nella nostra vita». Da questa dichiarazione emerge un alto grado di consapevolezza del proprio ruolo culturale, tutto il momento dissacratorio ed eversivo si riduce ad una funzione meramente pubblicitaria e propagandastica, necessaria ad un movimento che intende rivolgersi alle masse. Così l’esaltazione bellicista, il disprezzo della donna, la volontà distruttiva, devono essere ricondotti a un livello più ludico e dissacratorio che programmatico-politico, lasciando spazio agli elementi di vera innovazione: l’estremo ricorso all’analogia come catalizzatore d’immagini, la riduzione dell’io, il superamento del luogo comune poetico (il chiaro di luna), e soprattutto il verso libero. Questo almeno in campo letterario. Ma il campo d’azione ove certamente il futurismo ha saputo maggiormente innovare e sconcertare è il teatro. Nel manifesto il teatro di varietà, uscito sul «Daily Mail» del 21 novembre 1913, Marinetti definisce il teatro futurista «una vetrina remuneratrice d’innumerevoli sforzi inventivi» il cui carattere principale è la grande capacità di generare stupore. Vi è qualcosa di predadaista nell’appello a ciò che dissacra e sconcerta. La riduzione al minimo delle battute, abolendo persino il dialogo e arrivando a un teatro del silenzio dove le sensazioni sono poste sul piano surreale di un’attesa d’eventi assurda e irrisolta, prefigura esperienze che saranno del Novecento maturo: si pensi ad Aspettando Godot di Samuel Beckett.

Il futurismo sembra dare il meglio di sé non appena esce dal formalismo più rigido facendo prevalere quella corrente ludica che verrà poi assunta in toto dall’esperienza dada. Se è vero che un testo come Zang tumb tumb risulta, nella sua difficoltà di lettura, un po’ fine a se stesso, è altrettanto vero che le esperienze eterodosse di Soffici e Palazzeschi sono d’innegabile valore artistico e letterario. Ma accanto a questi grandi nomi del firmamento futurista occorre recuperare la memoria di Bruno Corra (1892–1976), pseudonimo del conte Bruno Ginanni Corradini, forse l’autore più eterodosso del panorama futurista italiano. Aderì giovanissimo al movimento marinettiano. Nel 1914 scrisse con Settimelli il manifesto della critica futurista intitolato Pesi, misure e prezzi del genio artistico e ancora con Settimelli e lo stesso Marinetti fu autore del Manifesto del teatro futurista sintetico (1915) scrivendo poi diversi testi di teatro sintetico. Nel 1916 fondò a Firenze la rivista «L’Italia futurista» (1916-1918), il cui gruppo rispecchiava l’eclettismo e l’originalità del fondatore, interessandosi al medianismo e alla rabdomanzia, oltre che alla psicologia dell’inconscio, prefigurando così quelle che saranno le istanze del surrealismo. Corra contribuì alla stesura del Manifesto della cinematografia futurista recitando addirittura nel leggendario film futurista, diretto dal fratello Arnaldo Ginna, Vita futurista. Fu anche autore di romanzi sintetici tra i quali il più noto è  Sam Dunn è morto (1917), incluso da Giovanni Raboni nel suo elenco dei cento romanzi italiani migliori del Novecento. Nell’intreccio emergono le componenti magiche e occultiste che lo avvicinano a un certo dadaismo e surrealismo. Ambientato a Parigi in un futuristico 1952, muovendosi tra humor nero e disilluso nichilismo, narra la storia breve di Sam Dunn: giovane solitario, trasognato ma buono, incapace di adattarsi alla realtà. Una figura di antieroe proto-esistenzialista, caratterizzato da una sostanziale immobilità, lontano e opposto al superuomo futurista. La logica delle azioni di Sam Dunn è imprevedibile e tutta concentrata nella sfera del subcosciente, che mette a soqquadro le leggi di natura. Proprio il subconscio di Sam Dunn è la causa di una incontenibile follia che prende i cittadini di Parigi: le giacche volano, la gente esce per strada coi vestiti al contrario facendo discorsi che sono nonsense, addirittura un poliziotto cammina completamente nudo. Improvvisamente la gente urla in coro un solo nome: Sam Dunn!! Ma Sam Dunn è solo, a stordirsi di alcool e fumo, presentendo la propria fine. L’azione a questo punto si sposta in Liguria, dove la moglie di un eccentrico imprenditore possiede capacità medianiche. Il suo influsso magico si sposta a Parigi contagiandone gli abitanti. Proprio questo scontro tra poli d’irrealtà determina la morte di Sam Dunn, assassinato dalla sua cameriera. Le forze profonde e irrazionali che dominano questo «racconto insolito» (M.Verdone), certo di matrice decadente, hanno infine esito liberatorio; le gabbie dell’esistenza borghese vengono spalancate dal perturbatore di coscienze Sam Dunn che, cosciente del proprio ineluttabile destino di morte, non si fa coinvolgere e con distacco irridente arriverà infine a dire:

IO sono un attimo galleggiante nella pazzia dell’esistenza. ME ne sto sulla poltrona sbalordito ed incerto di fronte alla realtà tranquillamente vivente. NE ho un’impressione di vertigine non pericolosa in fondo. FREGO un cerino ed accendo, vivaddio, una buona sigaretta.

 

«Io me ne frego» è l’estremo atto di sprezzo e irrisione nei confronti dell’esistenza borghese, dei suoi valori immobili e ipocriti; motto che è difficile stabilire se sia nato in questa pagina ma che passerà, con contenuti diversi, nel vocabolario tipico del fascismo.

Altrettanto particolare fu l’esperienza di Ardengo Soffici, già collaboratore del «Leonardo» consolidò la sua amicizia con Papini e disegnò la testata del primo numero della «Voce», i suoi interessi per l’arte figurativa gli costarono qualche contusione quando, dopo aver stroncato sulla «Voce» la mostra di pittura futurista tenutasi a Milano nel 1911, Marinetti, Boccioni e Carrà calarono su Firenze per una missione punitiva risoltasi in rissa al caffè delle «Giubbe Rosse». Suo carattere peculiare fu il trasferire in poesia la sua pratica pittorica che, unita alle suggestioni del frammentarismo vociano, hanno dato esiti tra i più interessanti del futurismo. Chimismi lirici, la sua raccolta più ardita e sperimentale, influenzata dai Calligrammes di Apollinaire, presenta -accanto a un recupero dell’io lirico e a una sostanziale tenuta sintattica- elementi innovativi che verranno poi recuperati dalla neoavanguardia del secondo Novecento. La commistione di toscanismi e forestierismi, di voci dotte e arcaiche accanto a espressioni quotidiane, è uno dei tratti tipici del Laborintus sanguinetiano così come l’uso frequente della citazione, che diventerà marca distintiva della neoavanguardia.

Parlando di neoavanguardia non si può tacere il nome di Aldo Palazzeschi che, recuperato proprio negli anni Sessanta dopo una lunga emarginazione, influenzato da quel clima culturale, seppe tornare allo sperimentalismo della giovinezza con la cosiddetta trilogia senile. L’abilità ludica e funambolica di Palazzeschi -il cui primo editore fu il gatto di casa- è di lungo corso, fin dai tempi dell’Incendiario (1910) e del Codice di Perelà (1911) egli seppe rovesciare ed irridere sia i valori borghesi che quelli futuristi: la metafora dell’uomo di fumo come farsa del potere, il distacco dal fascismo e l’antimilitarismo lo avvicinano alle istanze del dadaismo. La misura del tutto personale e originale della sua adesione al futurismo è tutta nella sua dichiarazione di poetica Il controdolore, manifesto del grottesco e del surreale, del riso come potenza di smascheramento e rovesciamento, pubblicato su «Lacerba» il 29 dicembre del 1913: «Bisogna abituarsi a ridere di tutto quel di cui abitualmente si piange. […] L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride. […] Maggiore quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, più egli sarà uomo profondo».

In discussione è il ruolo stesso di poeta, in Chi sono? vi si contesta l’idea di un soggetto precostituito e unitario in nome di una progressiva perdita d’identità. Il mestiere di poeta subisce allora una drastica riduzione. È questa la figura dell’ «antipoeta» che sarà tanto cara alla neoavanguardia di Sanguineti e Giuliani i quali, in polemica con la menzogna dell’ideologia borghese, hanno visto nell’ Incendiario palazzeschiano un degno antenato.

Stile e tradizione -la poesia sincera

Un analogo ridimensionamento del ruolo di poeta lo si può ritrovare in autori provenienti dalle più diverse esperienze letterarie, si può dire che sia uno dei leitmotiv più insistiti del Novecento. Corazzini si definiva «un povero fanciullo che piange», Gozzano si presenta come «un coso su due gambe detto guidogozzano» mentre Marino Moretti si dice autore di «poesie scritte col lapis», segni labili e incerti, e Saba arriverà a chiedersi «cosa resta da fare ai poeti?». Questo processo di corrosione arriverà fino ai nuovi grandi come Eugenio Montale, il cui «non chiederci la parola» diventa simbolo di uno scetticismo totalizzante. Ma proprio Montale, nello stesso anno degli Ossi di seppia, interverrà sulla rivista gobettiana «Il Baretti» con un articolo-manifesto di segno apparentemente opposto, in cui si auspicava un ritorno alla “poesia sincera” in polemica con le precedenti avanguardie, dal titolo Stile e tradizione:

Lo stile, il famoso stile che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre generazione, malata di furori giacobini, superomismo, messianismo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar la gente. In tempi che sembrano contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, del polemismo, delle diatribe, la salute forse è nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume.

Accudire il proprio lavoro senza pretese di piazza, questo è il buon costume. Non continua la tradizione chi lo vuole ma chi può, magari anche senza saperlo. Sante parole. Chi l’avrebbe detto che di lì a poco sarebbero arrivati, feroci e ultimi, i novissimi?

La neoavanguardia

La neoavanguardia non è da considerarsi come un’irruzione del nuovo nell’asfittico panorama poetico italiano, questo fu il carattere proprio del futurismo. Il termine stesso, col prefisso neo-, indica la riproposizione del dato già acquisito e non la proposta dell’assolutamente nuovo. Essa non appartiene dunque al moderno che presuppone la possibilità di fare ancora e sempre del nuovo, ma piuttosto al post-moderno in cui ci si limita a riproporre il già detto essendo il nuovo non più praticabile.

La neoavanguardia ebbe certo il merito di introdurre in Italia, sulla scorta della scuola di Francoforte, nuove discipline di ambito socio-linguistico ed ebbe la non meno importante funzione di recupero di autori fino a quel momento dimenticati dalla critica (Lucini, Palazzeschi e altri futuristi eterodossi quali Cavacchioli, Folgore e Farfa) ma il valore intrinseco della sua produzione poetica non è sempre all’altezza dell’apparato critico ideologico la che accompagna o precede. La dichiarazione di poetica assume un ruolo sempre più importante, uscendo dagli spazi dogmatici del manifesto diventa, marxisticamente parlando, struttura sulla quale poggia la prassi poetica passata ormai in secondo piano: una «poetica prima della poesia» (Giovannuzzi), è questa la vera rivoluzione della neoavanguardia. Una rivoluzione negativa però, in cui testo e paratesto entrano in conflitto. La dichiarazione di poetica diventa un corpo estraneo, tanto più alieno perché fondato su presupposti politico-ideologici, soffocando la stessa poesia che diventa sempre più marginale. Lo sperimentalismo pasoliniano rappresenta, in tal senso, il tentativo di riportare nella poesia la poetica, dove la dichiarazione d’intenti è tutt’uno con la pratica, in un rapporto di vicendevole conferma. Ma lo stesso Pasolini non esiterà a chiedere «una pagina di confessione» a Sereni e, con meno circospezione, «scritti di fiancheggiamento critico e ideologico» a Fortini. La dichiarazione programmatica diventa un dovere per lo scrittore che deve assolutamente esplicitare la sua posizione. Il testo poetico, ridotto a mero strumento esemplificativo, perde di sincerità e a poco varrà la presa di posizione sereniana contro i «dottori in ideologia letteraria». L’operazione che avrebbe dovuto portare la poesia alle masse, reinventando il rapporto autore-lettore (Lector in fabula), attraverso una rivoluzione culturale operata dai poeti in piazza, la cui voce «il Quindici» proponeva di fiancheggiare i movimenti giovanili cavalcando l’onda sessantottina, finisce per avere effetti contrari a quelli sperati. Svuotato di senso il ruolo del poeta, svuotata di contenuto e capacità comunicativa la poesia, si assiste a un allontanamento del pubblico. La poesia viene sempre più emarginata mentre «i dottori in ideologia letteraria» si assicurano ruoli di sicuro prestigio nell’industria culturale italiana, proseguendo la loro politica di monopolio.

 Da questo excursus attraverso le avanguardie e i movimenti letterari del Novecento emerge un chiaro e semplice dato: la politica è sempre la tomba della poesia. Lo fu per D’Annunzio con la prima guerra mondiale, per i futuristi col fascismo, per gli espressionisti tedeschi con le rivolte spartachiste del primo dopoguerra, per i surrealisti con la guerra civile spagnola. La commistione tra politica e poesia si risolve sempre in un disastro per quest’ultima. La neoavanguardia ci consegna ad un nuovo millennio in cui la poesia non è più una categoria attiva. Emanciparsi dalle poetiche di appartenenza, dal posizionalismo, dai vincoli delle ascendenze e dai monopoli culturali, in favore di un sostanziale sincretismo, fatto di scambi e interferenze, sembra la sola possibilità rimasta a colui che ancora voglia chiamarsi poeta in questo nuovo secolo che tarda a iniziare.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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