di Federico Resler
“Libera chiesa in libero Stato”: è questo il motto coniato da Cavour per sancire la separazione tra il potere temporale e quello religioso. Un approccio che poco si attaglia al caso serbo: qui Chiesa (ortodossa) e politica (nazionalista) vanno a braccetto, quasi a sancire un legame inscindibile.
Per un leader serbo ricevere una benedizione da un pope non vuol dire solo assicurarsi le porte del paradiso, ma soprattutto un “cursus honorum” ricco di soddisfazioni e un pedigree da buon patriota. La Chiesa ortodossa è infatti un vero e proprio potere politico e un simbolo dell’identità nazionale: fondata nel Medioevo da San Sava, figlio del re Stefano Nemanja, è da sempre ritenuta il braccio religioso dell’autorità statale. E in quanto culto autocefalo, ovvero non dipendente dal Patriarca di Costantinopoli, è uno dei vanti principali per la destra sciovinista: un buon serbo deve essere per forza ortodosso.
La religione diviene così un marchio di riconoscimento a fini politici: deputati, segretari di partito e ministri sgomitano per avere un posto di fianco alle gerarchie ecclesiastiche. Una complicità che ha fatto calare una coltre di riservatezza sull’operato del clero ortodosso degli ultimi anni: dalla protezione ai criminali di guerra come Karadzic alle sparate ultra-nazionaliste.
In fondo la religione è una questione privata.
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